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Razzismo: i pregiudizi modificano la sensibilità al dolore in gruppi etnici diversi

Una ricerca italiana su Current Biology fa luce sui riflessi neurologici del pregiudizio: gli stereotipi e i pregiudizi razziali collegati ad un colore della pelle attenuano la naturale compartecipazione alla sofferenza altrui

Il cervello dei razzisti funziona in modo diverso. A differenza di quello delle altre persone, fatica a identificarsi spontaneamente nella sofferenza fisica di individui di altri gruppi etnici. La prova è arrivata mostrando, a soggetti sottoposti a stimolazione magnetica transcranica, sia bianchi italiani, sia neri africani residenti in Italia, immagini di aghi che venivano conficcati sul dorso di mani dalla pelle di diverso colore. L’inedito risultato, frutto del lavoro di un gruppo di neuroscienziati italiani, sarà pubblicato a inizio giugno sull’autorevole rivista scientifica Current Biology.

"Ciò che abbiamo osservato - spiega Alessio Avenanti, psicologo 34enne dell’Università di Bologna, coordinatore della ricerca - è che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui, nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è strettamente legata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore. Individui con alto pregiudizio razziale tendono a rispondere in maniera estremamente ridotta al dolore di membri dell’altro gruppo etnico, mentre persone con basso pregiudizio razziale tendono a reagire in modo simile al dolore dei membri del proprio e dell’altro gruppo etnico".

Per prima cosa, gli studiosi hanno testato la reazione ad immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo razziale. Quando un bianco osserva un ago conficcarsi sulla mano di un bianco, nel suo cervello si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. Furono proprio Avenanti e colleghi a dimostrare, qualche anno fa, che questa reazione è comune di fronte al dolore altrui. E la stessa cosa accade quando un nero osserva la medesima scena su una mano di pelle nera. La novità messa in luce da questo studio è che per alcuni, osservando l’ago conficcarsi su una mano associata ad un diverso gruppo etnico, questa reazione è pressoché assente.

Gli scienziati, a questo punto, si sono chiesti se non fosse banalmente la scarsa familiarità al colore e ai tratti somatici dell’altro gruppo ad indurre la ridotta immedesimazione sensoriale: non siamo noi ad essere razzisti, è solo che ci disegnano così. Hanno quindi ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi, e il risultato è stato sorprendente. I due gruppi manifestavano empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa. Ciò suggerisce, secondo gli studiosi, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale ad esso associato. Sarebbero in altri termini gli stereotipi e i pregiudizi razziali collegati ad un colore della pelle ad influenzare, e perfino ad attenuare, la naturale compartecipazione alla sofferenza altrui, che si manifesta anche di fronte a soggetti percepiti come non familiari.

Questa conclusione è rafforzata da un ulteriore test condotto dai ricercatori. I soggetti sono infatti stati sottoposti ad un’indagine standard sui pregiudizi razziali inconsci, che misura la spontaneità e la rapidità con cui idee positive o negative vengono associate a diversi gruppi etnici. Si è palesata un'evidente correlazione tra sentimenti razzisti latenti e resistenza empatica. Tanto più il soggetto, bianco o nero che fosse, è risultato inconsapevolmente razzista, tanto più flebile è apparsa la sua capacità di immedesimazione, mentre individui non razzisti tendono a mostrare gli stessi livelli di empatia verso soggetti di entrambi i gruppi.

La sperimentazione si è conclusa nel 2009 e ha coinvolto circa quaranta studenti universitari, per metà bianchi italiani e per metà neri africani residenti in Italia. La stimolazione magnetica transcranica è una tecnica per lo studio del cervello, che consente di registrare l’attivazione dei circuiti neuronali associati a diversi movimenti del corpo, sensazioni tattili, dolorose e così via. Nel caso specifico, l’attività cerebrale d’interesse è stata amplificata tramite un impulso elettromagnetico e quindi misurata in base ai riflessi sui muscoli a livello periferico, grazie a sensibilissimi sensori su dita, mani e altri zone degli arti, capaci di rilevare anche la più impercettibile delle contrazioni e reazioni. Infatti, quando osserviamo una sensazione dolorosa negli altri, si verifica una brusca riduzione dell’attività neuronale associata a quella sensazione, riduzione che si manifesta anche nei riflessi sui muscoli collegati, come se si congelassero improvvisamente, e che viene così riscontrata e quantificata dai sensori.

Oltre ad Alessio Avenanti, che lavora al Centro studi e ricerche in neuroscienze cognitive dell’Alma Mater, hanno preso parte alla ricerca Salvatore Maria Aglioti, dell’Università La Sapienza di Roma e dell’Ircss Fondazione Santa Lucia, e Angela Sirigu dell’Istituto di scienze cognitive del Cnrs francese a Lione.