Logo d'ateneo Unibo Magazine

Un dinosauro che respirava come un uccellino

Un team di studiosi ha esaminato lo scheletro, rinvenuto in Tunisia, di uno dei più grandi erbivori del Cretaceo: l'interno delle sue ossa era cavo, ed in vita era riempito da sacche d'aria, come negli uccelli
Un dinosauro che respirava come un uccellino

Tataouinea hannibalis, il dinosauro della famiglia dei rebbachiasauridi rinvenuto nel sud della Tunisia e studiato da un team di ricercatori dell’Università di Bologna, ha un sistema di respirazione molto simile a quello degli uccelli di oggi. E’ quanto hanno scoperto gli studiosi bolognesi che da alcuni anni conducono, in collaborazione con l’Office National des Mines di Tunisi, campagne di scavo nel sud della Tunisia per portare alla luce fossili del periodo Cretaceo e ricostruire un complesso ecosistema vecchio di 110 milioni di anni. Nell’articolo pubblicato sulla rivista Nature Communications i ricercatori presentano infatti la nuova specie di dinosauro erbivoro, Tataouinea hannibalis, che non solo rappresenta uno dei dinosauri meglio conservati dell’Africa settentrionale, ma fornisce importanti informazioni sull’apparato respiratorio di alcuni tra i più grandi erbivori del periodo Cretaceo.

Lo scheletro esaminato, lungo almeno 14 metri, risulta molto leggero nonostante la mole, dato che l'interno delle sue ossa era cavo, ed in vita era riempito da sacche d'aria, come negli uccelli. In particolare, alcune cavità delle ossa della coda e del bacino avvalorano l'ipotesi che questi dinosauri respirassero secondo lo stesso avanzato meccanismo degli uccelli moderni.

Il dinosauro Tataouinea, rinvenuto da Aldo Bacchetta nel 2011 e studiato da Federico Fanti, Andrea Cau, Mohsen Hassine e Michela Contessi, è stato rinvenuto in un ricco giacimento di fossili a sud dell’abitato di Tataouine. Lo scheletro è stato portato alla luce da sedimenti che documentano l’esistenza nel Cretaceo di un ampio sistema estuarino dominato da diverse specie di coccodrilli e caratterizzato da un clima caldo e secco.

La ricerca è stata condotta in collaborazione con l’Integrated Geoscience Research Group dell’Università di Bologna e finanziata da Eni Tunisia, Fondazione Alma Mater e Museo Geologico Giovanni Capellini.