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Lucia Servadio Bedarida, donna tenace e coraggiosa

Lo storico e prof. emerito dell'Alma Mater, Gian Paolo Brizzi, per la Giornata internazionale della donna, racconta la storia della più giovane dottoressa italiana, moglie del prof. Unibo Nino Vittorio Bedarida, che per oltre 40 anni ha svolto la sua professione a favore delle donne di tutte le etnie. A 105 anni ha provato anche l’ebbrezza di sorvolare le pendici del Cervino con un parapendio assistito

"Nell’autunno del 2006, l’Archivio storico dell’Università di Bologna - racconta il prof. Gian Paolo Brizzi - ricevette un pacco che proveniva da Cornwall on-Hudson, un villaggio residenziale nello Stato di New York. Il pacco custodiva alcune foto e un fascicolo di documenti appartenuti a Lucia Servadio e al marito Nino Vittorio Bedarida.

Nino Vittorio Bedarida, libero docente della Facoltà di Medicina dell'Alma Mater, apparteneva a quella schiera di oltre 50 docenti che le leggi razziste avevano fatto decadere dalla loro funzione ed espulso dall’Università di Bologna. Partimmo da quelle poche carte per ricostruire la vita dei due coniugi, prima e dopo l’espulsione, con la coscienza di compiere un modesto gesto riparatore per le centinaia di ebrei, professori e studenti, allontanati in quel 1938-39 dall’Alma Mater.

Nino Bedarida e Lucia Servadio si erano sposati a Roma nel 1923: 11 anni separavano l’età dei due coniugi, entrambi medici. Dopo la Grande Guerra lui esercitava la professione nell’Ospedale di Torino ma coltivava interessi scientifici, presto coronati con due libere docenze nell’università di Bologna ed era poi passato in qualità di primario all’ospedale di Vasto.


Originaria di una famiglia ebrea di Ancona, Lucia Servadio, nata nel 1900, aveva manifestato un ingegno assai precoce: conclusi gli studi liceali a 16 anni, si era iscritta a Medicina all’Università di Roma dove si laureò a pieni voti nel 1922, segnalandosi come la più giovane dottoressa italiana. Durante una vacanza a Torino presso la nonna materna aveva conosciuto Nino Bedarida e l’anno seguente si erano sposati. Le tre figlie nate dal loro matrimonio non impedirono a Lucia di collaborare attivamente come assistente del marito, partecipando agli esperimenti di laboratorio, alle operazioni chirurgiche, pubblicando i risultati delle sue ricerche.

La loro restava un’esistenza quieta, di quelle destinate a restare invisibili ai più, finché la loro vita fu investita dalla tragedia delle leggi razziste con il conseguente allontanamento dall’Università e dall’Ospedale di Vasto. Fu ben presto evidente la necessità di allontanarsi da quel Paese dove l’alleanza del governo fascista con il nazismo era premonitrice di ben maggiori atrocità, ma la soluzione non fu facile: le richieste ai consolati per i necessari visti furono tutte respinte e non mancarono i profittatori, come accadde con il console dell’Ecuador che si fece consegnare una cospicua tangente senza poi rispettare l’impegno. La madre e la nonna di Lucia che vollero restare in Italia furono deportate ad Auschwitz Birkenau e all’arrivo avviate alle camere a gas. Fu un ex-allievo di Nino Bedarida a suggerire quella che divenne la soluzione: nella zona internazionale di Tangeri, in Marocco, non occorreva il visto e qui la comunità italiana aveva proprie scuole, un ospedale e vi era la possibilità di aprire una clinica privata.

Lucia, così, si incaricò di vendere le loro proprietà in Italia e, raggiunto il marito, si aprì per lei una fase di crescente impegno professionale che durò per oltre 40 anni spesi soprattutto a favore delle donne di tutte le etnie (arabe, berbere, sahrawi) che fece convergere nel suo ambulatorio un flusso continuo di donne che non si erano mai sottoposte ad una visita medica, per il divieto religioso di mostrare il proprio corpo ad un uomo che non fosse il marito.

Quando le sue figlie si trasferirono negli USA per gli studi universitari e dopo la morte del marito (1965), Lucia volle restare a Tangeri ed anzi il suo impegno si intensificò: la professione medica esercitava per lei un forte richiamo che attribuiva “allo spirito femminile di curare chi soffre”. Non trascurò di divulgare la sua esperienza con articoli su riviste americane, di ricostruire storicamente i nessi che lei individuava fra la medicina araba e quella europea, di impegnarsi con associazioni assistenziali (es. Oeuvres de secours aux enfants), o di collaborare con il Ministero della sanità marocchino.

Restò in Marocco fino al 1981, quando cedette alle insistenze delle figlie trasferendosi presso di loro a Cornwall on-Hudson ma pur ritiratasi dall’esercizio della professione medica non finì di lasciare prove del suo spirito vitale trasferendosi per le vacanze dagli USA alla Valle d’Aosta, richiamata dalla semplicità della vita della gente di montagna.

L’anno prima della morte, a 105 anni, volle provare l’ebbrezza di sorvolare le pendici del Cervino con un parapendio assistito, commentando: “Invece delle vitamine, inali l’aria della valle, un elisir di immortalità”.