Nutriamo la ricerca, con il tuo aiuto: intervista a Lorenzo Marconi
5 PER MILLE UNIBO / È il coordinatore del progetto di ricerca SHERPA, guidato dall'Univeristà di Bologna, grazie al quale è stato costruito un drone in grado di individuare le persone travolte da valanghe e accelerare così i soccorsi. Il prossimo passo è lo sviluppo di sistemi di teleoperazione delle piattaforme volanti mediante comandi vocali e gestuali
Le valanghe costituiscono uno dei pericoli principali per chi frequenta la montagna. Come può la soluzione elaborata dai ricercatori Unibo costituire uno strumento utile per salvare vite?
Ogni anno sono numerose le persone vittime di valanghe. Ad incidente avvenuto, l'unica possibilità di salvezza per chi viene travolto senza riportare traumi mortali durante il trascinamento è legata alla rapidità di ritrovamento, che andrebbe contenuta nell’arco di pochi minuti. La tempestività dei soccorsi è quindi fondamentale. Oggigiorno la tecnologia utilizzata per localizzare il disperso è denominata ARTVA. Si tratta di trasmettitori/ricevitori molto spesso indossati da chi esercita sport invernali. Un apparecchio ARTVA in modalità ricezione è in grado di localizzarne un altro in modalità trasmissione ad una distanza di centinaia di metri e sotto un metro di neve. L’idea che stiamo sviluppando in SHERPA è quindi quella di utilizzare un drone dotandolo di un ricevitore ARTVA per la ricerca dei dispersi, in modo da poter perlustrare una vasta area in tempi rapidi. Spesso la vittima si trova in località difficili da raggiungere e soprattutto pericolose per gli stessi soccorritori, anche a causa del rischio di valanghe ulteriori. La piattaforma è quindi molto utile perché permette ai soccorritori di localizzare velocemente il segnale emesso dal disperso operando in totale sicurezza. Il drone è equipaggiato poi di un controllo automatico, che dispensa il soccorritore dal pilotaggio del velivolo e gli permette di rimanere concentrato sulle operazioni di soccorso e di avvicinamento alla zona di interesse. È importante notare che lo scenario invernale delle valanghe è solo uno degli ambiti affrontati da SHERPA. Il progetto si prefigge infatti lo sviluppo di tecnologie utili per la ricerca e soccorso anche in scenari estivi, nei quali le problematiche di ricerca e soccorso sono addirittura più critiche e numericamente più consistenti.
Dopo le analisi di laboratorio avete portato il drone in montagna per testarlo sul campo. Quali sono stati i risultati?
I test sul campo insieme alle squadre del Soccorso Alpino del Club Alpino Italiano, che è partner del progetto europeo, sono iniziate circa un anno fa e sono state prevalentemente condotte presso il comprensorio sciistico di Pila, in provincia di Aosta. I primi test condotti avevano evidenziato problematiche ingegneristiche molto critiche, causate dai disturbi elettromagnetici generati dal sistema di potenza del drone che interferivano con l’apparecchio ARTVA. Il lavoro intenso dei ricercatori ha permesso di risolvere tali criticità, e di realizzare una piattaforma tecnologica ora molto compatta e affidabile. Nelle ultime prove condotte a 2000 metri di altezza il drone è stato in grado di localizzare in poche decine di secondi un apparecchio ARTVA distante 400 metri dal punto di decollo e sommerso sotto due metri di neve. Il sistema verrà a breve dato in dotazione a squadre sperimentali del Soccorso Alpino, in modo da sperimentare queste tecnologie in condizioni sempre più realistiche e acquisire suggerimenti dai volontari del CAI, quotidianamente impegnati in scenari di soccorso. La ricerca che stiamo attualmente conducendo in laboratorio riguarda lo sviluppo di sistemi di teleoperazione delle piattaforme volanti mediante comandi vocali e gestuali. L’idea è che il soccorritore comunichi con il drone attraverso un microfono e dei guanti sensorizzati, impartendo ordini molto intuitivi e naturali. Sarà il sistema di controllo di bordo ad interpretare tali comandi e trasformali in comandi per il drone. Queste tecnologie sono state fino ad ora provate solo in laboratorio e verranno portate sul campo a partire dal prossimo inverno.
Qual è il contributo dato dal lavoro di squadra in un progetto come il vostro?
Il progetto SHERPA prevede dieci partner (sette università, due aziende e un’organizzazione pubblica, il CAI appunto) e più di settanta ricercatori provenienti da tutta Europa. Le competenze presenti nel consorzio sono molteplici e spaziano dalla robotica, all’intelligenza artificiale, ai sistemi cognitivi, ai controlli automatici. In un progetto della complessità di SHERPA il lavoro di squadra è fondamentale per i molteplici obiettivi che ci poniamo. Non si tratta solo di progettare e costruire le piattaforme tecnologiche, ma anche di integrarle con il team di soccorritori. Un elemento essenziale sarà ovviamente il soccorritore immaginato nel progetto con un “busy genius”. “Genius” in quanto caratterizzato da capacità cognitive superiori a quelle della piattaforma robotica di supporto e da una notevole esperienza ad operare negli scenari di SHERPA. “Busy” in quanto molto spesso impegnato nelle operazioni di ricerca/soccorso in terreni pericolosi e quindi impossibilitato a supervisionare le piattaforma in modo continuo. La piattaforma dovrà saper operare in modo autonomo (quando il “genius” è “busy”), elaborando opportunamente i comandi eventuali dell’operatore che - quando presenti - sono sempre ad alto valore aggiunto (comandi provenienti da un “genius”). Le competenze quindi spaziano da settori che sono prettamente ingegneristici ad ambiti più di scienze informatiche, tutti necessari al fine di sviluppare una piattaforma totalmente integrata con il team di umani. Senza le competenze di tanti gruppi di ricerca e un vero lavoro di squadra il risultato sarebbe impossibile da raggiungere. All’interno di SHERPA un’enfasi particolare è appunto data ad attività di integrazione tra gruppi di ricerca. Ogni anno organizziamo una “integration week”, un’intera settimana dove tutti i ricercatori del progetto si ritrovano per lavorare a stretto contatto verso attività di integrazione e passaggio di competenze ed esperienze tra gruppi di ricerca diversi.
Qual è il ruolo della ricerca nella società di oggi?
Attribuisco un ruolo fondamentale alla ricerca, sia a livello sociale che industriale. Gruppi di ricerca che hanno successo a livello internazionale sono quelli composti in modo equilibrato sia da ricercatori impegnati in ricerche di frontiera, con un impatto sociale e industriale a lunghissimo termine, e altri impegnati in attività di “trasferimento tecnologico”, più a stretto contatto con problematiche e aspettative concrete. Penso a gruppi di ricerca coesi, in cui la presenza di “teorici” e “applicativi” sia ben delineata e salvaguardata, senza tuttavia creare barriere di comunicazione e interazione. La ricerca gioca un ruolo fondamentale nel momento in cui si riesce a preservare queste due anime, senza derive egemoniche di una o dell’altra. Solo così si può salvaguardare una spinta forte verso l’innovazione, fondamentale per la competitività del paese, mantenendo un contatto forte con le problematiche e le aspettative reali della società. Vivo questo modo di vedere la ricerca in SHERPA, dove ad alcune attività di ricerca certamente molto d’avanguardia, ma che difficilmente avranno ricadute “commerciali” nei prossimi dieci anni, se ne affiancano altre più concrete e d’impatto nel breve termine, come l’idea del drone illustrata prima. Rispetto a centri di ricerca non universitari, la ricerca in ambito universitario riveste poi un ruolo fondamentale perché in stretta relazione con l’attività didattica. Soprattutto in percorsi di laurea magistrale, nei quali il trasferimento di ultimi ritrovati della ricerca deve essere un punto di forza e un obiettivo imprescindibile. A tale riguardo è fondamentale trasmettere agli studenti un atteggiamento da “ricercatori”, quella curiosità e spinta alla sperimentazione e al rigore metodologico tipici di ambiti di ricerca, e questo indipendentemente dal profilo professionale che lo studente avrà. Anche in questo vedo un risvolto sociale fondamentale della ricerca: trasmettere alla società, attraverso i nostri studenti, un modo propositivo di guardare al futuro e un atteggiamento coraggioso e consapevole verso lo sviluppo tecnologico, perché è da esso che possono nascere iniziative imprenditoriali innovative.
Come i cittadini possono contribuire concretamente ai progetti di ricerca?
Il 5 per mille all’Università di Bologna è sicuramente un modo concreto per supportare le attività di ricerca di giovani ricercatori talentuosi che spesso, per mancanza di risorse, sono costretti ad abbandonare il loro sogno di ricerca o migrare all’estero. Il fatto che tutti i proventi della campagna siano destinati all’erogazione di nuove borse di studio per dottorandi è un segnale forte dell’Ateneo verso il rinnovamento e l’inserimento di nuove risorse. Un altro aspetto che vorrei evidenziare è la vicinanza, in senso più ampio, tra tessuto sociale e attività accademiche. Il ricercatore è spesso visto come una figura isolata dal contesto quotidiano, che lavora in una sorta di “torre d’avorio” e svolge attività lontane dalle esigenze concrete della società. Il rischio che questo succeda deve essere scongiurato con una presenza forte di tutta la società nella vita dell’Ateneo, anche in scelte economiche e politiche. Fare squadra tra Università, tessuto sociale e realtà industriale penso sia la chiave per un’Università non solo luogo di lezioni ed esami, ma soprattutto centro ove condividere sfide e progettare il futuro.