“Un giorno, improvvisamente, risuonarono fra le mura del blocco due numeri: quello di un’ebrea romena e il mio. Con il consueto pungolo “schnell, schnell” fummo introdotte in una specie di stamberga ove due ufficiali SS ci chiesero di confermare la nostra qualifica professionale.
Quello fu senza dubbio l’attimo cruciale della mia vita nel lager, perlomeno per il tempo trascorso ad Auschwitz. Con gesto istantaneo tolsi dal vestito ove lo custodivo il mio certificato di laurea sottoponendolo alla verifica delle SS. Questo documento produsse una sorprendente impressione sui due. L’Università di Bologna nota in tutto il mondo, e l’enfatica dicitura: laureata in “Medicina e Chirurgia” fecero il resto. Il caso mio era più unico che raro negli annali dei lager tedeschi …Le confidenze che due si scambiavano a voce bassa, non nascondendo un pizzico di ammirazione per la mia previdente manovra...Fui subito gratificata con il titolo di Ärtzin (dottoressa) che mi lasciò allibita dalla sorpresa” (Dora Klein, Vivere e sopravvivere. Diario 1936-1945, Milano, Mursia, 2001, pp. 167-168.)
“È questo il racconto che Dora Klein (o Klajn) fa del momento in cui grazie a quel diploma che provvidenzialmente portava con sé riuscì ad evitare la sorte cui erano destinati uomini e donne di qualsiasi età dal progetto di sterminio nazista – racconta il prof. Gianpaolo Brizzi.
Figlia unica di Baruck e Rozalia Herszkowicz, Dora era nata a Łódź il 25 gennaio 1913, una ricca città industriale, la seconda per numero d’abitanti della Polonia: al momento dell’invasione tedesca un terzo dei suoi abitanti appartenevano alla comunità ebraica ma nel gennaio 1945, quando l’Armata Rossa liberò la città, dei circa 223.000 ebrei presenti del 1939 ne erano rimasti 877.
Il padre, che aveva un piccolo negozio di tessuti, poté assicurare alla figlia una buona istruzione nel migliore istituto privato della città, noto per il suo orientamento progressista. Volendo continuare gli studi superiori in Medicina, Dora si trasferì a Bratislava, ove nel 1919 era stata aperta una Facoltà di Medicina nella nuova Università Comenio, e vi soggiornò per un biennio.
Poco assidua agli studi ma molto impegnata politicamente, partecipò alle attività di un gruppo di studenti di orientamento comunista Fu così che Dora, insieme ad una decina di compagni, furono espulsi dal Paese e parte di loro scelse di trasferirsi all’Università di Bologna (“A Bologna mi ero sentita quasi a casa mia”).
Abbandonata l’attività politica, Dora si dedicò con impegno allo studio che concluse brillantemente il 31 ottobre del 1936 e nel gennaio del 1937, superato a Napoli l’esame di Stato, si ritrovò ad essere la più giovane fra le donne ammesse a professare la medicina in Italia. Una tormentata relazione amorosa con un giovane ufficiale di Marina dominò la sua vita negli anni successivi, segnata da continui trasferimenti (Fiume, Taranto, Napoli, Pisa, san Giorgio Ionico) per mantenere vivo il loro rapporto, rinsaldato dalla nascita di una bambina, ma avversato dall’impossibilità di un matrimonio fra una straniera e un militare. L’ultima tappa di tanto peregrinare fu Borgotaro dove il presagio del destino oramai segnato, dopo la creazione della RSI, la indusse ad inviare la figlia ad Udine alla famiglia del padre della piccola. Poi il succedersi rapido degli eventi nel tunnel della obbrobrio della Shoah: la detenzione prima in un albergo poi il passaggio al campo di Fossoli e nel febbraio del 1944 il trasferimento ad Auschwitz dove si palesa immediatamente la realtà dell’Olocausto: “le donne accompagnate dai figli imboccavano subito la scorciatoia verso la morte”, lei unita ad altri medici da Mengele che la “degnò di uno sguardo pieno di disprezzo e di malevolenza”.
Il passaggio successivo a in un piccolo campo, a Budy, di sole donne a combattere contro la malaria, il tifo petecchiale, la TBC, sforzandosi di tener celato per quanto era possibile le condizioni di salute delle prigioniere per evitare il loro trasferimento ad Auschwitz dove aveva visto colonne di uomini marciare inconsapevoli verso le camere a gas. Dopo un anno di quell’inferno un nuovo trasferimento all’altro capo della Germania per allontanare i sopravvissuti dall’imminente arrivo dell’Armata Rossa: destinazione Belsen, in Sassonia dove non trova i forni crematori ma “montagne di cadaveri … morti insieme ai moribondi che gemevano, piangevano” e dove Dora si ammala di tifo ed è in uno stato di totale prostrazione fisica quando il campo viene liberato dopo due mesi dai reparti britannici.
Per lei è una sorta di resurrezione: esce da quella sorta di trance nella quale si era rifugiata per sopravvivere nei lager nazisti e inizia faticosamente a riannodare le fila interrotte della sua vita.