Un team internazionale di ricerca coordinato da studiosi dell’Università di Messina e dell’Università di Bologna ha mostrato che le persone con un cronotipo serale – che sono cioè più attive di sera – presentano un apprendimento della paura alterato: una caratteristica che spiegherebbe il maggiore rischio per queste persone di sviluppare disturbi d’ansia. Pubblicato sul Journal of Affective Disorders, lo studio rivela che chi è più produttivo nelle ore serali presenta una maggiore attivazione del Sistema Nervoso Autonomo (SNA) in compiti di apprendimento implicito della paura.
“Con il temine cronotipo ci si riferisce alle differenze di prestazione che ogni persona ha in relazione ai periodi di sonno e veglia nell'arco delle 24 ore della giornata. Possiamo avere un cronotipo mattutino se preferiamo svegliarci presto e avere un buon rendimento nelle attività che iniziano al mattino, un cronotipo serale se siamo più produttivi di notte e preferiamo restare svegli fino a tardi, o infine intermedio, se ci adattiamo facilmente agli orari mattutini e serali”, spiega Carmelo Mario Vicario, direttore del Laboratorio di Neuroscienze Cognitive e Sociali, Dipartimento Cospecs dell’Università di Messina.
Studi precedenti avevano mostrato una relazione tra cronotipo serale e l'insorgenza di disturbi mentali come l'ansia e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD). “Nel nostro studio abbiamo indagato se in persone con cronotipo serale siano alterati alcuni meccanismi alla base di questi disturbi, e se siano legati all’apprendimento della paura”, aggiunge Vicario. I risultati ottenuti lo confermano: una maggiore vulnerabilità ai disturbi d’ansia delle persone con cronotipo serale può essere legata a un alterato meccanismo di acquisizione della paura.
“Questo studio fornisce nuove informazioni sull'influenza del cronotipo sui processi cognitivi e affettivi, suggerendo che la maggiore vulnerabilità del cronotipo serale all'ansia e ai disturbi correlati può essere mediata da un alterato apprendimento implicito della paura", spiega Alessio Avenanti, professore al Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna - Campus di Cesena, tra i coordinatori della ricerca. “I risultati ottenuti hanno diverse implicazioni: si potrebbe ad esempio agire sul cronotipo per ridurre i livelli di ansia e stress, monitorando l’efficacia dell’intervento con il protocollo di realtà virtuale che abbiamo utilizzato”.
I ricercatori hanno infatti fatto ricorso al classico paradigma del condizionamento alla paura, che deriva dagli studi del premio Nobel Ivan Pavlov, attraverso un sistema di realtà virtuale.
“I partecipanti allo studio indossavano un caschetto ed erano immersi in un ambiente di realtà virtuale nel quale osservavano stimoli visivi inizialmente neutri e che potevano predire l’occorrenza di una scena che induceva paura, ovvero un mostro che appariva improvvisamente simulando un’aggressione nei confronti dell’osservatore”, illustra Chiara Lucifora, prima autrice dello studio dell’Ateneo Messinese ed esperta di Realtà Virtuale immersiva (iVR), attualmente presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR di Roma. “Dopo questa esposizione, gli stimoli neutri associati al mostro (gli stimoli condizionati) acquisivano una proprietà emotiva aversiva, inducendo un aumento della sudorazione, un indice fisiologico che riflette l’attivazione del SNA associato alla paura. In questo modo abbiamo dimostrato che le persone con cronotipo serale mostrano un incremento della risposta fisiologica che riflette la paura; effetto che non si verifica nel gruppo di controllo con cronotipo intermedio”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Affective Disorders con il titolo “Enhanced fear acquisition in individuals with evening chronotype. A virtual reality fear conditioning/extinction study”. Oltre a Chiara Lucifora e Carmelo Mario Vicario, gli autori del Dipartimento Cospecs dell’Università di Messina sono Giorgio Grasso, Giovanni D'Italia, Mauro Sortino e Alessandra Falzone; insieme ad Alessio Avenanti del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell'Università di Bologna - Campus di Cesena, e Mohammad Salehinejad e Michael A. Nitsche del Leibniz Research Centre for Working Environment and Human Factors di Dortmund.