Domani e sabato il Dipartimento di Scienze politiche e sociali ospita il seminario "America: ancora una potenza europea?" L'appuntamento è realizzato in collaborazione con il Bologna Center della Johns Hopkins University e il consorzio Europaeum di grandi università europee.
Il seminario - in lingua inglese - propone di offrire una prospettiva storica-politica sulla fase attuale dei rapporti euro-americani, enfatizzando non tanto, e solo, il quadro strategico-economico, ma le dimensioni ideali e culturali, il gioco del soft power, i contrasti sempre più evidenti nell’idea di "good life", tra stato e mercato, speranze ed aspettative, invecchiamento e rinnovamento.
Nel dicembre 1989, subito dopo la caduta del Muro, il segretario di stato James Baker, in visita a Berlino, affermò che l’America era e sarebbe rimasta "una potenza europea". Baker garantiva che gli Stati Uniti non si sarebbero rifugiati nell’isolazionismo, come nel Primo dopoguerra, e che l’impegno americano a favore delle istituzioni atlantiche rimaneva saldo come prima. E ribadiva l’attenzione e l’impegno degli Stati Uniti nella transizione forzata a cui sarebbero stato sottoposti subito i paesi dell’ex-blocco sovietico, oltre che la continuità dello storico sostegno statunitense all’integrazione economica europea.
Gli anni successivi rivelarono come le forme della potenza americana con la quale gli europei dovevano fare i conti non si limitavano alle basi NATO o alle grandi corporazioni. Nel 1998, il ministro degli Esteri francese Hubert Védrine coniò e popolarizzò il concetto di "iperpotenza" (hyperpuissance), per caratterizzare la combinazione delle molteplici proiezioni della potenza statunitense: dal tecnologico al finanziario, dal politico al consumistico, dai personaggi ai media, simboli, icone, gadgets...
Il 2000 parve rappresentare il punto più alto delle fortune americane. Gli anni successivi invece sono stati caratterizzati come "il decennio dall’inferno" (Time), e l’elenco dei disastri è noto a tutti. All’Europa non è però andata molto meglio. La guerra in Iraq ha visto aprirsi delle crepe nel fronte europeo che si sono rivelate in ultimo insanabili. Chi chiedeva la nascita di un nuovo cittadino europeo (Habermas e Derrida) è rimasto deluso. Né i sostenitori né gli oppositori europei alla guerra in Iraq hanno mai più riacquistato l’importanza di un tempo agli occhi dell’America. All’Iraq è seguita la crisi finanziaria, e la scoperta di un’interdipendenza strutturale che ha trascinato nel vortice entrambi i lati dell’Atlantico. Solo l’elezione di Barack Obama nel 2008 ha alimentato la speranza di un ritorno alle origini; chi può dire, però, se i risultati abbiano corrisposto alle aspettative proiettate su di lui in quel momento, dall’Europa come da tanti altre parti del mondo? Lo sguardo europeo che ha accompagnato la sua rielezione nel novembre 2012 aveva tutt’altro tono.