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L’identità fluida dell’Europa a 25

L’Unione Europea continua il suo allargamento. Nuovi stati, nuove posizioni da negoziare, nuovi strumenti di governance da introdurre e una politica estera comune da definire all’interno di Nazioni Unite da riformare. Ci parla di queste sfide, Lorenza Sebesta, docente dell’Università di Bologna che non teme il carattere sfumato dell’identità europea.
Una cartina sfumata dell'Europa L’Europa a 25 è ufficialmente varata: l’Unione annovera ora dieci nuovi paesi e i suoi confini si estendono dal Mar Baltico al sud del Mediterraneo. L’hanno accolta bandiere e festeggiamenti, ma anche timori e scetticismo. I sondaggi parlano infatti di un europeismo in calo e i politologi più critici considerano la nuova Europa una confederazione economica priva di una base politica.

C’è davvero il rischio che l’allargamento immobilizzi definitivamente la capacità decisionale di un’Europa già paralizzata sulle questioni più delicate?
Da europeista convinta non condivido per nulla questo scetticismo”, afferma Lorenza Sebesta, docente della Facoltà di Scienze Politiche di Forlì. “Come ha giustamente osservato Tommaso Padoa Schioppa, faccio infatti notare che quasi tutti i nuovi entrati sono stati piccoli che hanno nel loro Dna l’attitudine alla cooperazione. Sanno cioè che l’Unione conviene anche a loro, che è l’unico loro tramite per incidere nella comunità internazionale: il loro ingresso quindi non potrà che dare uno stimolo”.

Rimangono però i problemi legati ai metodi di governance.
“Certo, ma sul piano tecnico è già prevista, per esempio, l’estensione del voto a maggioranza qualificata, che migliorerà l’efficienza degli organi decisionali. E poi il vero ostacolo finora è stato la mancanza di una coesione politica sugli obiettivi di fondo e su questo fronte credo che l’ingresso di nuovi paesi non possa che servire a definire meglio tali obbiettivi”.

Se davvero si sbloccasse il dibattito sulla politica estera comune e sugli affari interni quali sarebbero gli obiettivi primari da perseguire?
“Sul primo punto credo che occorrerebbe lavorare per fare dell’Unione un attore unico all’interno di un O.N.U. completamente riformata dopo i fallimenti con l’Iraq. Nella gestione degli affari interni penso invece che, una volta superato lo scoglio del Trattato costituzionale, la priorità dovrebbe essere data alla riduzione della forbice che separa le regioni ricche da quelle povere. Per raggiungere quest’ultimo traguardo occorrerebbero programmi di sviluppo ad hoc, che sfruttassero, nel breve periodo, i vantaggi competitivi dei nuovi membri, come per esempio il basso costo della manodopera, e, nel medio-lungo periodo, l’elevato patrimonio di conoscenze già accumulato da molti dei nuovi entrati”.

Dopo aver parlato di economia e politica, un’ultima considerazione. I drammatici eventi dell’undici marzo scorso a Madrid hanno toccato la Spagna, ma sconvolto tutta l’Europa. Qualcuno ha perciò affermato che quegli attentati potrebbero cementare l’identità dell’Unione più di quanto i trattati abbiano fatto finora. Ipotesi lecita?
“Ne dubito. L’identità che l’Europa cerca faticosamente di raggiungere non corrisponde a quella di uno stato nazionale, non si fonda sull’appartenenza organica a uno stesso popolo e quindi è estranea alla retorica che solitamente a tale appartenenza si accompagna, ovvero al suolo natio e al sangue versato per la patria. L’identità europea è un’identità inclusiva, che cerca di definirsi non in contrasto con l’Altro, ma attraverso un negoziato continuo fra le componenti che ne fanno parte. L’idea stessa di un “nemico comune” è in contrasto con i fondamenti di questo nuovo modo, fluido, di concepire l’identità”.