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Traballa il mito del pane quotidiano

Sfidato da una miriade di prodotti sostitutivi, perde colpi il più tradizionale dei prodotti: il pane. Il retroscena economico di un fenomeno che porta sulle nostre tavole prodotti più calorici ma di cui, talvolta, ci si sazia più in fretta.
Pane affettato Il pane è meno quotidiano. Lo rivela un’indagine della Coldiretti, secondo cui dal 2000 a oggi il consumo di pane in Italia è sceso di venticinque punti percentuali: sulle nostre tavole insomma ne arriva un quarto in meno rispetto cinque anni fa. Al suo posto, una miriade di prodotti cosiddetti sostitutivi, vecchie cenerentole che oggi sono aggressive come tigri: basti pensare, per esempio, che i cracker e i grissini nel 2003 hanno sviluppato assieme un fatturato superiore ai 270 milioni di euro.

Ma non basta. C’è anche da dire che il pane non è più "il" pane ma "i" pani: in casseruola, morbido, senza sale, in cassetta, alle olive. Esistono una miriade di varianti (alcuni parlano di 250) e, anche se i tradizionali prodotti freschi da forno permangono saldi al primo posto (responsabili di più di 4.900 dei 5.300 milioni di euro di fatturato generati dall’intero mercato), al loro fianco i prodotti freschi industriali disegnano un trend in crescita dell’1,3%. Con i principali operatori del settore – Barilla, Private label, Morato Pane, Unichips, Panem – impegnati a colonizzare altre nicchie di mercato, ampliando ulteriormente la loro offerta.

Più alternative al pane e più tipologie di pane, dunque. "Detta in maniera un po’ brutale – spiega il prof. Aldo Bertazzoli – questo accade per una ragione di marketing: la diversificazione del prodotto, infatti, genera sempre un aumento dei consumi". E’ un po’ come quando si è bambini: della solita minestra ci si stanca in fretta, ma per un assaggio di qualcosa di nuovo c’è sempre spazio. E così per curiosità culinario-culturale si buttano nel carrello i nuovi variegati pani confezionati, che poi conquistano i consumatori anche per un motivo molto più prosaico: si conservano meglio. Una caratteristica che "data la difficoltà di gestione della dispensa – prosegue ancora Bertazzoli – diventa molto pagante per il successo di un prodotto. Molto di più della voglia di sperimentare una combinazione di sapori tipici".

Resta da capire ora se queste modificazioni negli stili di consumo siano fruttuose sotto l’aspetto dietetico. I dati oggettivi sono scoraggianti: grissini e fette biscottate danno per ogni 100 g. un apporto calorico superiore alle 400 Kcal, ovvero quasi il doppio delle 275 Kcal che si acquisiscono mangiando la stessa quantità di pane impastato con farina di tipo 0. Per fortuna, però, i numeri non dicono tutto: "Va precisato, infatti – conclude Bertazzoli – che i quantitativi che vengono normalmente ingeriti variano a seconda dei casi, diminuendo, per esempio, quando gli alimenti richiedono una lunga masticazione". E poi c’è la pastosità, la friabilità e molto altro ancora. Come al solito, insomma, non c’è un alimento colpevole della nostra obesità: sono tutti innocenti a patto di non "provocarli" abusandone in quantità.