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Cellule staminali per riparare i cuori danneggiati

Il gruppo di ricerca guidato dal prof. Carlo Ventura è riuscito, per la prima volta, a rigenerare i tessuti danneggiati di un cuore di topo colpito da infarto. Utilizzando cellule staminali umane
Cellule staminali embrionali di topo

Quando un infarto colpisce il cuore lascia dietro di se una cicatrice, una zona rigida di tessuto fibroso che comporta di fatto la perdita di una parte della funzionalità dell'organo. Questo, ad oggi, lo stato delle cose. Ma lo scenario potrebbe cambiare radicalmente. Nel giro di pochi anni.

Nel Laboratorio di Biologia Molecolare e Bioingengeria delle Cellule Staminali, presso l'Istituto di Cardiologia dell'Ospedale S. Orsola - Malpighi, è stato infatti per la prima volta rigenerato il cuore di un topo colpito da infarto. E rigenerato grazie al trapianto di cellule staminali umane. Un risultato estremamente importante che apre le porte alla sperimentazione, prima su animali di grossa taglia e in seguito, eventualmente, sull'uomo.

"Il trapianto tra specie diverse, lo xenotrapianto, è in assoluto il più rischioso, eppure abbiamo trapiantato cellule staminali umane in un topo e i risultati sono stati ottimi. Non c'è stato rigetto e non è stata necessaria l'immunosoppressione. Dopo il trattamento sul roditore abbiamo osservato che si è rigenerato più del 95% del tessuto cardiaco danneggiato in seguito all'infarto". Le parole sono del professor Carlo Ventura, ordinario di Biologia Molecolare presso l'Università di Bologna e direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare e Bioingegneria delle Cellule Staminali presso l'Istituto di Cardiologia del Policlinico S. Orsola - Malpighi.

Il tentativo di curare queste patologie cardiache attraverso l'utilizzo delle cellule staminali era già avviato da qualche tempo. "Già tre o quattro anni fa sono iniziate le prime sperimentazioni sull'uomo in questa direzione", dice il prof. Ventura. "Si trattava di iniettare nelle zone interessate sostanzialmente cellule staminali prelevate dallo stesso paziente. Una volta scemato il clamore iniziale, però, e una volta avviate sperimentazioni sistematiche e dettagliate, ci si è accorti di come i risultati di questo primo tentativo fossero tutto sommato modesti. C'è stata una fretta forse eccessiva nel passaggio alla sperimentazione sull'uomo". La nuova tecnica, messa a punto dal team del prof. Ventura, si fonda su due importanti innovazioni che approfondoscono e correggono i primi approcci alla terapia cellulare in campo cardiaco.

La prima di queste innovazioni riguarda il tipo di cellule utilizzate. Nonostante si possano ottenere buoni risultati con il trapianto omologo (cioè di cellule prelevate dallo stesso paziente), è possibile assicurare una riuscita molto maggiore del trattamento utilizzando il trapianto eterologo.  E' stata in particolare sottolineata l'efficacia dell'utilizzo di cellule embrionali prelevate dalla placenta e dalla membrana amniotica. "Queste cellule", chiarisce il professor Gian Paolo Bagnara del Dipartimento di Istologia, Embriologia e Biologia Applicata, "possono essere considerate, per la loro efficacia, come l'alter ego delle famose cellule staminali embrionali e sono le più indicate per la terapia in vivo".

La seconda e fondamentale innovazione, invece, è l'utilizzo di una particolare molecola, chiamata HBR, per il trattamento delle cellule staminali che dovranno in seguito essere trapiantate nel cuore infartuato. "L'utilizzo di questa molecola", spiega il prof. Ventura, "da un lato consente lo sviluppo della differenziazione cellulare, favorendo la nascita sia di cellule miocardiche che di cellule vascolari e dall'altro aumenta la sintesi di importanti fattori tropici che favoriscono la ricorstruzione dei vasi vascolari, l'arresto della morte cellulare e la demolizione del tessuto danneggiato dall'infarto".

Raggiunto questo primo importante e solido traguardo, la sperimentazione non può che andare avanti. E, sostenuti dai risultati incoraggianti, tra due anni, o forse anche meno, sapremo quali sono le possibili applicazioni della terapia sul'uomo.

La ricerca condotta dal prof. Ventura è stata realizzata anche grazie al supporto del CNR e in stretta sinergia con l'Istituto Nazionale di Biostrutture e Biosistemi (INBB), un consorzio interuniversitario di 26 atenei, cui aderisce anche l'Università di Bologna.