Biodiversità marina? Non ci sono solo le barriere coralline. È quanto rivela un nuovo studio globale su pesci costieri: se la diversità viene misurata considerando non solo il numero di specie presenti, ma anche la loro abbondanza ed il loro ruolo funzionale nell’ecosistema, emergono nuovi hotspot di biodiversità, tra cui alcuni in regioni temperate. Brulicanti di vita, le barriere coralline tropicali sono state a lungo considerate le aree di maggiore biodiversità per pesci e altre specie marine, e quindi quelle a cui dedicare più risorse per la conservazione.
Lo studio, pubblicato nel numero di questa settimana della rivista Nature, è stato condotto da un team internazionale di ricercatori tra cui Laura Airoldi, professoressa di Ecologia dell’Università di Bologna e attualmente all’estero presso l'Università di Stanford con una borsa di ricerca Fulbright. Il team, guidato dal Prof. Graham Edgar e dal Dr. Rick Stuart-Smith, dell'Università della Tasmania (Australia), comprendeva ricercatori australiani, americani, spagnoli, inglesi, svedesi, italiani, indonesiani e cileni.
Il numero di specie in un ecosistema, quello che i ricercatori chiamano "ricchezza di specie", ha dominato le teorie sulla distribuzione della biodiversità globale fin dai tempi di Darwin e Linneo. E' anche stato a lungo utilizzato come il principale parametro biologico per la gestione degli ecosistemi in pericolo. Ma, dice la Prof. Airoldi, "contare soltanto le specie offre una visione parziale di quale sia la reale ricchezza di un sistema. Ogni specie ha caratteristiche uniche, e per capire come le diverse specie contribuiscano al funzionamento degli ecosistemi abbiamo bisogno di conoscere non soltanto quante specie ci siano, ma anche la loro identità, quanto siano abbondanti e che ruolo svolgano. Questi dati sono generalmente più difficili da ottenere. Il nostro è il primo studio che abbia raccolto queste informazioni in maniera coerente su scala globale, e questo sforzo ha prodotto una mappa molto diversa della distribuzione della diversità globale".
Il team ha condotto lo studio attraverso l'analisi di dati ottenuti da oltre quattromila campionamenti standardizzati di pesci in 1844 località in tutto il mondo, che comprendevano regioni tropicali, temperate e polari. I campionamenti sono stati condotti nell’ambito del programma Reef Life Survey, un progetto di citizen science finanziato dal governo australiano. La citizen science è un metodo di ricerca scientifica che si sta affermando in molti campi e che, con il coinvolgimento del pubblico - in questo caso volontari subacquei - sta dando risultati importanti in molti settori, dall'astronomia alla biochimica.
Le indagini hanno trovato 2.473 specie diverse di pesci. Andando oltre le tradizionali analisi basate sul numero di specie, il team di ricerca ha utilizzato una matrice che includeva dati sia sull’abbondanza delle specie che informazioni sulle loro "caratteristiche funzionali", cioè la dieta prevalente, il modo in cui si cibano, dove vivono, se sono attivi di notte o durante il giorno, e il livello di aggregazione. "Includere questo tipo di informazioni nelle analisi - spiega Airoldi - ha fatto emergere una distribuzione della diversità globale diversa da quella tradizionalmente accettata, rivelando nuove aree geografiche, in ambienti temperati, in cui la diversità funzionale di pesci è più elevata che nelle barriere coralline".
I risultati del gruppo hanno importanti implicazioni per la conservazione e gestione delle aree marine, in particolare per quanto riguarda l’istituzione di zone di tutela. Il primo autore del lavoro, Stuart-Smith, osserva che "relativamente poche aree marine protette si trovano a latitudini temperate, una disparità che si è accentuata negli ultimi anni con la creazione di grandi aree marine protette tropicali". "I nostri risultati - aggiunge Airoldi - identificano una sottostimata importanza della biodiversità nelle regioni temperate dell'emisfero, rafforzando la necessità di una maggiore rappresentanza di queste regioni in un sistema globale di protezione degli ambienti marini".
Dallo studio emerge purtroppo che il Mediterraneo è una zona a bassa diversità funzionale. "Questo potrebbe essere dovuto all’intenso sfruttamento antropico che ha storicamente caratterizzato questo bacino", spiega Airoldi. "In Mediterraneo molte specie di pesci rischiano l’estinzione a causa dell’eccessiva attività di pesca, dell’inquinamento e della perdita di habitat. Attualmente stiamo rianalizzando i dati per individuare possibili relazioni tra la bassa diversità funzionale osservata in alcune regioni quali il Mediterraneo e alcuni importanti impatti antropici. Questo permetterebbe di sviluppare indicatori ecologici che identifichino priorità nella gestione adattativa dei sistemi marini su scala sia regionale che globale".