Si sono mossi un po’ come Lilly Rush, la giovane detective della serie televisiva americana Cold Case. Hanno aperto una vecchia scatola d’archivio e, a partire dai reperti in essa contenuti, hanno ricostruito una storia. Niente delitto irrisolto in questo caso, ma la ricostruzione di un rituale funerario nella preistoria partendo dal materiale rinvenuto e catalogato dopo uno scavo archeologico eseguito una sessantina di anni fa. E’ quanto ha messo a punto l’equipe, tutta femminile, composta da Maria Giovanna Belcastro (docente di Antropologia), Valentina Mariotti (PhD in Antropologia) e Silvana Condemi (Directeur de Recherche al CNRS francese, Marsiglia).
“Lo studio dei rituali funerari nella preistoria si avvale in genere della documentazione dei contesti di rinvenimento prodotta durante lo scavo. Può però accadere che per contesti funerari scavati nel passato questa documentazione non sia disponibile” – spiega Maria Giovanna Belcastro.
Ciò si è verificato appunto per la necropoli epipaleolitica della grotta di Taforalt (12-15000 anni fa, Marocco), costituita da 28 sepolture contenenti gli scheletri di più individui, scavata negli anni ’50 del secolo scorso da Jean Roche. Di quegli scavi rimane tuttavia la ricca collezione osteologica umana (Institut de Paléonthologie Humaine, Parigi), che ha costituito una feconda fonte documentaria per indagare le pratiche funerarie di quelle antiche popolazioni. Ossa trattate e ocrate, sono alcuni degli indizi che hanno fatto propendere per l’esistenza di un rituale che in assenza di documenti scritti non è stato semplice ricostruire.
Dalle indagini precedentemente pubblicate dagli autori sul Journal of Human Evolution (Mariotti et al., 2009; Belcastro et al., 2010) sui resti ossei e sulle tracce ivi osservate di modificazioni intenzionali (colorazione con ocra rossa e tracce di smembramento e scarnificazione), emergeva il quadro di un’area sepolcrale costituita da sepolture primarie e secondarie, spesso contestuali, di circa 40 individui adulti e adolescenti e di numerosi bambini. Oltre a pratiche di trattamento del cadavere e di manipolazione di ossa successiva alla decomposizione, alcune lesioni ossee suggerivano casi di violenza peri mortem e cannibalismo. Il recente ritrovamento, inaspettato e fortuito, di alcune foto e di alcuni rilievi di quello scavo di Jean Roche ha consentito, attraverso quest’ultimo lavoro, in stampa su Journal of Archaeological Science, di trovare conferme alle ipotesi in precedenza avanzate e di arricchire il quadro già delineato grazie all’analisi di ulteriori elementi (posizione del defunto, presenza di corna di bovidi, ecc.).
“Per la prima volta è stato possibile ricostruire una struttura dei comportamenti funerari che ricalca quella descritta da Van Gennep nel 1909 per i riti di passaggio. La morte viene dunque vista come una fase della vita e il defunto accede per suo tramite ad una nuova condizione sociale” – prosegue Belcastro.
La morte fisica quindi non doveva apparire ai nostri progenitori preistorici come definitiva, ma come passaggio ad una nuova condizione – passaggio regolato da riti solo al termine dei quali l’individuo poteva finalmente “staccarsi” dal mondo dei vivi e “aggregarsi” a quello dei morti. Un rapporto con la morte quindi diverso da quello attuale e caratterizzato da una ritualità complessa, a dimostrazione che 13 mila anni fa la morte era vissuta come una nuova condizione sociale.