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Lotta contro i tumori: fermare mitocondri e macrofagi per fermare la malattia

Una particolare classe di globuli bianchi si sostituisce alle cellule tumorali quando queste non sono più in grado di produrre autonomamente i fattori che servono per creare nuovi vasi sanguigni. La scoperta ha portato alla messa a punto di un nuovo approccio farmacologico sperimentale, con risultati incoraggianti


Un gruppo internazionale di ricerca, coordinato da studiosi dell’Università di Bologna, ha individuato alcuni meccanismi che potrebbero contribuire a fermare la crescita tumorale. Una novità che ha permesso di mettere a punto un nuovo approccio farmacologico sperimentale da cui sono arrivati risultati incoraggianti.

Lo studio – pubblicato su Nature Communications – si concentra da un lato sul ruolo dei mitocondri, le centrali energetiche delle cellule, e dall’altro sui macrofagi, una particolare classe di globuli bianchi. Il punto di partenza è però a livello genetico, e si ricollega ad un'altra scoperta nata all’Università di Bologna: quella dell’oncogiano.

IL GENE MUTANTE BIFRONTE
Nel 2011 un gruppo di ricercatori dell’Università di Bologna annunciò la scoperta di un gene coinvolto nel processo di proliferazione dei tumori che presentava una caratteristica particolare. Una forma mutata del gene è presente in percentuali diverse all’interno delle cellule tumorali, con effetti diversi: fino ad una determinata quantità il gene contribuisce allo sviluppo della malattia, ma oltre una certa soglia la sua presenza diventa un fattore che porta all’arresto della progressione tumorale.

Per questo suo effetto bivalente, da un lato negativo e dall’altro positivo, il gene è stato ribattezzato “oncogiano”, in riferimento a Giano bifronte, la divinità latina dai due volti. A partire da questa scoperta, i ricercatori hanno continuato ad approfondire il ruolo dell’oncogiano all’interno delle cellule tumorali, cercando in particolare di comprendere i meccanismi che si attivano quando il gene mutato “cambia volto” e contribuisce all’arresto della malattia.

MACROFAGI E MITOCONDRI
Il primo aspetto su cui si sono concentrati gli studiosi è la capacità dell’oncogiano di bloccare la crescita di nuovi vasi sanguigni, senza i quali il tumore non riesce a diffondersi. Un processo che è collegato al ruolo dei mitocondri, gli organelli responsabili della produzione di energia all’interno delle cellule. “Quando abbattiamo la capacità delle cellule tumorali di generare energia tramite i mitocondri – spiega Giuseppe Gasparre, docente dell’Università di Bologna che insieme ad Anna Maria Porcelli ha coordinato lo studio – si ottengono una serie di effetti aggiuntivi, tra cui l’incapacità della cellula di produrre autonomamente i fattori che servono per creare nuovi vasi sanguigni ed approvvigionarsi sia di ossigeno che di nutrienti”.

Grazie a questo effetto, le cellule tumorali vengono quindi ostacolate e la crescita della malattia rallenta. Purtroppo però l’azione non è sufficiente a bloccare lo sviluppo del tumore. Gli studiosi hanno infatti scoperto che quando i mitocondri non riescono più ad operare entra in gioco un meccanismo sostitutivo che coinvolge i macrofagi, una classe di globuli bianchi connessa ai processi infiammatori e al riparo delle ferite. “Dopo un iniziale rallentamento della crescita tumorale – dice ancora il professor Gasparre – segue un riadattamento che coinvolge il sistema immunitario, in particolare i macrofagi, i quali si sostituiscono alle cellule tumorali per la sintesi di quei fattori utili ad attrarre o formare nuovi vasi sanguigni”.

L'APPROCCIO FARMACOLOGICO
I ricercatori sono quindi riusciti ad identificare, dal punto di vista molecolare, i meccanismi alla base di questo processo legato alla proliferazione tumorale. Da qui hanno fatto poi un ulteriore passo avanti, riuscendo a traslare i risultati ottenuti in un approccio farmacologico sperimentale.

Considerato che per ottenere un rallentamento della malattia occorre bloccare sia i mitocondri che i macrofagi, gli studiosi hanno messo a punto una combinazione di farmaci che agisce su entrambi gli elementi. “Nel nostro studio – dice ancora Gasparre – abbiamo testato su modelli animali l’azione combinata di farmaci inibitori mitocondriali come la metformina, di utilizzo comune per alcune forme di diabete, e farmaci inibitori dei macrofagi come ad esempio i bisfosfonati, utilizzati oggi per la cura dell’osteoporosi”.

Una prima serie di test ha restituito risultati incoraggianti, aprendo buone prospettive per una futura sperimentazione sull’uomo. “L’effetto antitumorale di queste classi di farmaci si è rivelato sinergico, abbattendo la crescita tumorale”, spiega Gasparre. “La risposta ottenuta ci permette di dire che un trasferimento di questi risultati sull’uomo potrebbe non essere lontano, visto anche che i farmaci presi in considerazione sono già in utilizzo per patologie non tumorali, a basso impatto economico, e con moderati effetti collaterali”.

Il prossimo passo potrebbe quindi essere la messa a punto di terapie mirate, in grado di stabilizzare la malattia, e in futuro magari anche farla scomparire. “I farmaci che proponiamo – conferma il professor Gasparre – potrebbero aiutare nella trasformazione di una neoplasia aggressiva in una ‘congelata’, dal carattere benigno, ma la speranza è che la combinazione con terapie standard possa addirittura eradicare la malattia”.

I PROTAGONISTI DELLO STUDIO
La ricerca, frutto di un lavoro durato sette anni, è stata pubblicata su Nature Communications con il titolo “Inducing cancer indolence by targeting mitochondrial Complex I is potentiated by blocking macrophage-mediated adaptive responses”. Lo studio è stato coordinato da due gruppi di ricerca dell’Università di Bologna: il gruppo di Genetica Medica del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche ed il gruppo di Biochimica del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie (FaBiT), con la partecipazione del gruppo di Genetica dello Sviluppo e del Cancro, sempre del FaBiT. Hanno collaborato inoltre studiosi di atenei e istituti di ricerca italiani e internazionali, tra cui l’Università di Modena e Reggio Emilia, il Francis Crick Institute di Londra (Regno Unito) e la Paracelsus Medical University di Salisburgo (Austria).

Prime autrici del lavoro sono due giovani ricercatrici dell’Università di Bologna: Ivana Kurelac e Luisa Iommarini. Il coordinamento è stato affidato al professor Giuseppe Gasparre (Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche) e alla professoressa Anna Maria Porcelli (Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie), con il supporto fondamentale del Centro di Ricerca Biomedica Applicata (CRBA). Lo studio è stato realizzato anche grazie a finanziamenti ricevuti dal Ministero della Salute e da AIRC - Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.