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“Nanostelle” e “nanofiori”? Il problema della forma nelle nanoparticelle

Hanno dimensioni nell’ordine dei miliardesimi di metro, ma la loro forma può essere cruciale per determinare le loro interazioni con cellule, molecole e con i sistemi biologici in generale. Ad oggi, però, non esiste un consenso scientifico su come classificarle. UniboMagazine ne ha parlato con il professor Matteo Calvaresi, che guida il NanoBio Interface Lab al Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician”


Matteo Calvaresi guida il NanoBio Interface Lab al Dipartimento di Chimica "Giacomo Ciamician"


Gli oggetti che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni – pensiamo a una ruota o a un ago – hanno forme precise che dipendono dallo scopo per cui quegli oggetti sono stati progettati. Se dal nostro “macromondo” quotidiano ci si sposta però nel “nanomondo” tutto diventa più complicato. Oggi siamo in grado di creare nanoparticelle – oggetti grandi un miliardesimo di metro – con grandi potenzialità in campo medico e farmacologico, perché capaci di interagire con cellule e molecole. Mentre però sappiamo che le proprietà di queste particelle piccolissime dipendono dalla loro composizione chimica e dalla loro dimensione, c’è un altro aspetto cruciale di cui ancora sappiamo poco: la loro forma.

Ad oggi non esiste un sistema condiviso per individuare e definire le nanoparticelle in base alla loro forma. Ma con il rapido sviluppo delle nanotecnologie, poterle catalogare anche in base a questo importante aspetto sarà fondamentale. UniboMagazine ne ha parlato con il professor Matteo Calvaresi, che guida il NanoBio Interface Lab presso il Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician” e che proprio su questo tema ha recentemente pubblicato un intervento su Nature Nanotechnology.

Professor Calvaresi, perché è importante conoscere la forma di una nanoparticella?
È stato dimostrato recentemente che la forma delle nanoparticelle può determinare le loro interazioni con le cellule, con biomolecole come proteine o anche il DNA, e con i sistemi biologici in generale. Questo significa che la forma di una nanoparticella può modulare in che modo questa viene assorbita all’interno di una cellula e la sua biodistribuzione, determinando ad esempio l’insorgere di possibili tossicità oppure la sua capacità di essere utilizzata come veicolo per specifici farmaci.

Ma quante forme possono avere le nanoparticelle?
Oggi è possibile sintetizzare nanoparticelle virtualmente di ogni forma. In alcuni casi sono facili da catalogare perché hanno geometrie ben definite: ci possono essere ad esempio “nanocubi” o “nanosfere”. Quando però si tratta di geometrie complesse il processo diventa molto più complicato.

Cosa succede in questi casi?
La tendenza sempre più diffusa tra gli scienziati è quella di associare le nanoparticelle con forme complesse ad analoghi nel mondo macroscopico. Possono nascere così le “nanostelle” o i “nanofiori”, che sono nomi metaforicamente molto efficaci, ma difficilmente contestualizzabili in un ambito di caratterizzazione geometrica.

Come si fa allora per definire le forme delle nanoparticelle?
Fino ad oggi questo problema è stato sostanzialmente ignorato, ma è ormai evidente che è necessario sviluppare un sistema capace di classificare le forme delle nanoparticelle e standardizzare la loro nomenclatura: questo permetterebbe agli scienziati di tutto il mondo di poter stabilire in modo univoco la forma di una nanoparticella utilizzando criteri geometrici oggettivi ben definiti e non più metaforici.

L'utilizzo di nomi arbitrari può generare confusione nel descrivere l'aspetto delle nanoparticelle, ma è possibile applicare tecniche di analisi per identificare e classificare le diverse forme (Immagine: Springer Nature, CC BY 4.0)


Non sembra però un compito semplice, considerato che stiamo parlando di oggetti con dimensioni nell’ordine dei miliardesimi di metro.
Il problema è estremamente complesso, prima di tutto perché quando si sintetizzano nanoparticelle, anche a concentrazioni bassissime, vengono prodotti miliardi di questi oggetti piccolissimi che hanno spesso forme leggermente diverse tra loro. Serve quindi stabilire una serie di nomenclature definite, accompagnate da criteri metrici applicabili alla caratterizzazione delle diverse forme possibili: in questo modo si può arrivare ad una vera e propria tassonomia delle nanoparticelle.

Serviranno però anche tecnologie in grado di “vedere” che forma hanno le nanoparticelle da catalogare.
Abbiamo già in mano strumenti capaci di analizzare e classificare le forme delle nanoparticelle, ma l’evoluzione tecnologica è continua. Big data, intelligenza artificiale, deep e machine learning sono oggi strumenti cruciali per il riconoscimento e l’elaborazione delle immagini: il loro coinvolgimento su questo problema nel prossimo futuro è estremamente probabile. E una volta stabiliti dei criteri comuni si potranno creare dei database dove ogni nuova nanoparticella sintetizzata potrà essere classificata e catalogata, riuscendo così a prevedere le sue proprietà e le sue capacità di interazione con il mondo biologico.

A che punto è la ricerca su questo tema all’Università di Bologna?
Nel NanoBio Interface Lab stiamo sperimentando un approccio alternativo che permette di eliminare il problema della possibile variabilità della forma delle nanoparticelle. In collaborazione con il professor Alberto Danielli del Dipartimento di Farmacia e Biotecnolgie stiamo utilizzando particelle proteiche nanometriche costruite sotto controllo biologico ovvero capsidi virali: in questo modo, l’assemblaggio e la forma delle nanoparticelle vengono controllati strettamente a livello genetico e si riescono a produrre nanoparticelle assolutamente identiche tra loro. AIRC ha recentemente finanziato un progetto per studiare l’utilizzo di queste nanoparticelle proteiche come innovativi veicoli per il rilascio selettivo di agenti in terapie anticancro.