Le stalagmiti sono ecellenti archivi paleoclimatici e paleoambientali (Foto: O. Lacarbonara)
L’Uomo di Neanderthal non scomparve a causa dei cambiamenti climatici, almeno non i numerosi gruppi che fino a circa 42.000 anni fa sono vissuti nell’area mediterranea occidentale. È la conclusione tracciata da un gruppo di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna, che è riuscito ad ottenere una dettagliata ricostruzione paleoclimatica dell’ultima era glaciale analizzando una serie di stalagmiti prelevate da alcune grotte pugliesi.
Lo studio – pubblicato su Nature Ecology & Evolution – si è concentrato sull’altipiano carsico delle Murge, in Puglia, dove neandertaliani e Homo sapiens hanno convissuto per almeno tremila anni, da circa 45.000 a 42.000 anni fa. Un periodo durante il quale i dati estratti dalle stalagmiti non mostrano cambiamenti climatici significativi. “L’area pugliese oggetto della nostra ricerca emerge come una ‘nicchia climatica’ durante la transizione fra Neanderthal e Uomo Moderno”, spiega il ricercatore Andrea Columbu, primo autore dello studio. “È dunque inverosimile che siano state drastiche variazioni del clima ad indurre la scomparsa dei neandertaliani in Puglia e, per estensione, in aree climatiche mediterranee simili”.
L’IPOTESI CLIMATICA
Tra le diverse ipotesi avanzate per spiegare l’estinzione dell’Uomo di Neanderthal, che in Europa è avvenuta circa 42.000 anni fa, quella climatica ha ottenuto un notevole consenso tra gli studiosi. Secondo questa teoria, la causa primaria della scomparsa dei neandertaliani sarebbero stati i drastici e rapidi cambiamenti climatici avvenuti durante l’ultima era glaciale, che nel giro di pochi secoli hanno portato a climi più freddi e aridi.
Testimonianze di queste nette variazioni del clima emergono in effetti dalle analisi di carote di ghiaccio della Groenlandia e da altri archivi paleoclimatici relativi all’Europa continentale. Quando però si considerano alcune aree del Mediterraneo, all'interno delle quali l'Uomo di Neanderthal è stato ben presente a partire da 100.000 anni fa, i dati a disposizione non offrono le stesse conclusioni. In particolare, nell’area mediterranea occidentale, una zona ricca di reperti preistorici, fino ad oggi non esistevano ricostruzioni paleoclimatiche di dettaglio dalle regioni che sono state popolate dai Neanderthal.
Gli studiosi al lavoro nella grotta di Pozzo Cucù, nell'area di Castellana Grotte, in Puglia
(Foto: O. Lacarbonara)
IL RUOLO DELLE STALAGMITI
Per ottenere informazioni sul passato climatico del Mediterraneo occidentale, il gruppo di ricerca dell’Università di Bologna ha allora rivolto la sua attenzione all’altipiano pugliese delle Murge. “La Puglia è di fondamentale importanza per la comprensione delle dinamiche antropologiche, perché sappiamo che fu abitata sia dai Neanderthal che dall’Homo sapiens a partire da circa 45.000 anni fa”, dice Andrea Columbu. “È una delle poche aree al mondo entro le quali le due specie abbiano condiviso un territorio relativamente limitato in estensione, e per questo rappresenta un unicum per lo studio dei fattori climatici e bio-culturali alla base della transizione fra Sapiens e Neanderthal”.
Come fare però per ricostruire il clima di quell’area in un tempo così remoto? La risposta sta nelle stalagmiti, formazioni calcaree che emergono dal suolo delle grotte carsiche formandosi per la caduta continua di gocce d’acqua ricche di calcite. “Le stalagmiti sono degli eccellenti archivi paleoclimatici e paleoambientali”, spiega Jo De Waele, professore dell’Università di Bologna che ha coordinato lo studio. “La loro formazione necessita l’infiltrazione di acqua piovana dall’esterno e questo le rende quindi un’evidenza indiscutibile della presenza o assenza di pioggia; inoltre, gli isotopi del carbonio e dell’ossigeno della calcite di cui sono composte danno indicazioni sullo stato del suolo e sulla quantità di pioggia durante tutto il loro periodo di formazione. Tutte queste informazioni possono poi essere intrecciate con datazioni radiometriche che permettono di ricostruire con precisione nel tempole diverse fasi di ‘crescita’ delle stalagmiti”.
Campionamento di una stalagmite che si è formata tra circa 106.000 e 27.000 anni fa
UN CLIMA (RELATIVAMENTE) COSTANTE
Proprio il ritmo di formazione è il primo elemento significativo messo in evidenza dallo studio. Le analisi dei ricercatori hanno mostrato che le stalagmiti pugliesi sono state caratterizzate da una deposizione continua durante tutto l’ultimo ciclo glaciale, ed anche nei cicli glaciali precedenti. Questo significa che nel corso dei millenni considerati non c’è stata nessuna drastica variazione climatica: un calo significativo delle precipitazioni piovose avrebbe infatti causato uno stop nella formazione delle stalagmiti.
Tra tutte quelle analizzate, una stalagmite in particolare ha permesso di ottenere informazioni rilevanti. Campionata nella grotta di Pozzo Cucù, nell’area di Castellana Grotte, in provincia di Bari, è una stalagmite lunga circa 50 centimetri sulla quale sono state realizzate 27 datazioni ad altissima risoluzione e circa 2.700 analisi degli isotopi stabili del carbonio e dell’ossigeno. Le datazioni hanno permesso di stabilire che il suo periodo di formazione è compreso tra circa 106.000 e 27.000 anni fa, rendendola così la testimonianza paleoclimatica basata su una stalagmite cronologicamente più estesa di tutta l’area mediterranea occidentale ed europea per quando riguarda l’ultimo periodo glaciale. E anche in questo caso non è stata trovata traccia di drastiche variazioni climatiche che potrebbero essere correlate con l’estinzione dei Neanderthal.
“Le nostre analisi mostrano lievi escursioni delle precipitazioni piovose nel periodo compreso tra circa 50.000 a 27.000 anni fa, ma non tali da generare una variazione della vegetazione presente sui suoli al di sopra della grotta”, dice Jo De Waele. “Durante tutto questo periodo, e quindi anche durante la convivenza di 3.000 anni fra Sapiens e Neanderthal e durante la fase di scomparsa dei neandertaliani, gli isotopi del carbonio indicano una bioproduttività dei suoli tutto sommato costante, indice dell’assenza di modificazioni drastiche della vegetazione, e quindi del clima”.
L’IPOTESI TECNOLOGICA
I dati emersi dallo studio sembrano insomma mostrare che le grandi variazioni del clima avvenute durante l'ultima era glaciale siano state assorbite in modo diverso nell'area del Mediterraneo rispetto a quanto accaduto nell'Europa continentale e alle alte latitudini della Groenlandia. E questo porterebbe a escludere l’ipotesi climatica come causa dell’estinzione dei neandertaliani.
Ma come può spiegarsi allora la scomparsa di questa specie umana, avvenuta dopo pochi millenni di convivenza con l’Uomo Moderno? A rispondere è Stefano Benazzi, paleoantropologo dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. “I risultati di questa ricerca rendono ancora più plausibile l’ipotesi portata avanti da diversi studiosi secondo cui alla base dell'estinzione dei Neanderthal ci sia una motivazione tecnologica”, spiega Benazzi. “Secondo questa teoria sarebbe stata in particolare la tecnologia di caccia, molto più avanzata per l’Homo sapiens rispetto al Neanderthal, ad aver contribuito in maniera primaria alla supremazia del primo rispetto al secondo, inducendo la scomparsa dei neandertaliani dopo circa 3.000 anni di convivenza fra le due specie”.
Gli studiosi dell'Alma Mater che hanno partecipato alla ricerca: Andrea Columbu, Jo De Waele, Veronica Chiarini, Stefano Benazzi
I PROTAGONISTI DELLO STUDIO
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Ecology & Evolution con il titolo "Speleothem record attests to stable environmental conditions during Neanderthal–modern human turnover in southernItaly". Per l’Università di Bologna hanno partecipato Andrea Columbu, Veronica Chiarini e Jo De Waele del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali, insieme a Stefano Benazzi del Dipartimento di Beni culturali.
Hanno inoltre partecipato studiosi dell’Università di Innsbruck (Austria), dove sono state eseguite le analisi isotopiche, e dell’Università di Melbourne (Australia) e Xi’an Jiaotong University (Cina), dove sono state realizzate le datazioni radiometriche (metodo Uranio-Torio). Lo studio è stato possibile grazie al contributo finanziario delle Grotte di Castellana e della Federazione Speleologica Pugliese, e al grande contributo dato dai gruppi di speleologi locali.