Molecolari, molecolari rapidi, antigenici, sierologici. Con tamponi naso-faringei, con prelievi di sangue, a breve forse anche con campioni di saliva. Quando si parla di test per individuare le persone infette da SARS-CoV-2 e contrastare quindi la diffusione della pandemia di COVID-19, l’attenzione si concentra il più delle volte solo sul loro livello – più o meno elevato – di accuratezza. Ma le cose sono più complicate di così: molto dipende infatti dal contesto in cui ci si trova e dal motivo per il quale si decide di somministrare i test.
A fare chiarezza su questo importante aspetto della strategia di contrasto al COVID-19 è ora un position paper pubblicato sulla rivista Acta Biomedica, che vede tra gli autori numerosi studiosi dell’Università di Bologna.
"I test per individuare il coronavirus possono essere fatti a scopo diagnostico, oppure a scopo di sorveglianza, o ancora con un obiettivo di screening: a seconda del contesto, anche tipologie di test con una performance minore possono rivelarsi fondamentali per ottenere risposte rapide ed efficaci", spiega Chiara Reno, prima autrice del paper e specializzanda in Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Bologna. "Serve un cambio di visione in questo senso: le strategie di testing devono essere ottimizzate per lo specifico obiettivo a cui si punta e per il contesto in cui ci si muove".
Il test più noto per rilevare il SARS-CoV-2 è quello molecolare, che a partire da un campione prelevato con un tampone naso-faringeo va a cercare la presenza di materiale genetico del coronavirus. In Italia, si è passati dai circa 5.000 test molecolari al giorno di fine febbraio a picchi di oltre 230.000 nel mese di novembre. Questo anche perché i test molecolari offrono la migliore affidabilità; a fronte però di tempi di elaborazione non rapidi e molto variabili a seconda delle circostanze.
"Nel corso della pandemia, l’approccio iniziale si è basato essenzialmente sul testare le persone sintomatiche con i test molecolari, ma ci si è presto resi conto che una grande proporzione di soggetti infetti risulta asintomatica, e questo ha richiesto un cambio di strategia", dice Chiara Reno. "È diventato quindi necessario passare da un approccio basato sui sintomi ed esclusivamente orientato alla diagnosi ad un più ampio screening della popolazione, in modo da intercettare anche i soggetti infetti asintomatici, per interrompere la catena di trasmissione e prevenire la diffusione del virus".
In questa prospettiva - dicono gli studiosi - può rivelarsi molto utile un'altra tipologia di test: quelli antigenici. A differenza dei test molecolari, i test antigenici cercano la presenza del coronavirus identificandone le specifiche porzioni - chiamate antigeni - che attivano il sistema immunitario. Si tratta di un tipo di test che richiede procedure molto più semplici rispetto a quelli molecolari: non è necessario passare attraverso laboratori attrezzati, e i risultati possono essere disponibili nel giro di 30 minuti o anche meno. La performance dei test antigenici è però inferiore rispetto a quella dei test molecolari.
Ma come si valuta la performance di questi strumenti di analisi? Ci sono due parametri fondamentali: la sensibilità, ovvero la capacità di identificare correttamente le persone infette, e la specificità, ovvero la capacità di escludere correttamente le persone non infette. Quando si deve nella pratica giudicare il risultato positivo o negativo di un test, a questi due parametri – che descrivono la validità del test verificato in condizioni sperimentali – si aggiunge un terzo aspetto altrettanto importante: la probabilità pre-test. Questo aspetto dipende dalla prevalenza della malattia all'interno della specifica popolazione, o dal fatto che un soggetto abbia sintomi sospetti o particolari fattori di rischio. In condizioni di bassa probabilità pre-test (inferiore al 4-5%), anche con una sensibilità del test inferiore a quella del test molecolare e con una buona specificità – come quella appunto dei test antigenici – i risultati negativi sono con altissima probabilità dei veri negativi. Quelli positivi, invece, devono essere confermati con un test molecolare, perché c’è una elevata probabilità di risultati falsamente positivi.
Questi ultimi aspetti, uniti alla sua rapidità, rendono il test antigenico adatto per strategie di screening su ampia scala di popolazioni asintomatiche e a basso rischio. "Un altro elemento importante è la ripetizione di questo test nelle popolazioni oggetto di screening: almeno una volta alla settimana, per essere sicuri di poter individuare i soggetti nella fase più contagiosa della infezione e isolarli per ridurre la catena di trasmissione", aggiunge Chiara Reno.
Un'ulteriore alternativa ai tamponi molecolari individuali per lo screening periodico di specifiche popolazioni, come ad esempio il personale sanitario o gli studenti delle scuole, è quella dal pooled testing. Questa strategia consiste nel mettere insieme i campioni provenienti da più soggetti e sottoporli ad un unico test molecolare. Se il risultato è negativo, tutti i soggetti possono ritenersi non infetti. Se emerge un risultato positivo si dividerà il campione in sottogruppi, che verranno controllati con un nuovo test, proseguendo in questo modo fino ad identificare il singolo o i singoli casi positivi presenti.
"In condizioni di bassa probabilità pre-test, il pooled testing permette di analizzare popolazioni numerose con un numero di test da processare nettamente inferiore rispetto alle altre strategie molecolari adottate finora, risparmiando così molte risorse in termini di tempo e di reagenti nei laboratori", sottolinea la professoressa Maria Pia Fantini, direttrice della Scuola di Specialità in Igiene e Medicina Preventiva dell’Università di Bologna che ha coordinato il gruppo di lavoro multidisciplinare da cui è nato il position paper. "È importante che siano tenuti insieme l’approccio clinico, infettivologico, quello microbiologico e quello epidemiologico e di sanità pubblica".
In sintesi, i programmi di screening, anche se fatti con test – come quelli antigenici – che hanno livelli di accuratezza inferiori rispetto ai test molecolari individuali, possono giocare un ruolo importante per individuare i soggetti asintomatici contagiosi e isolarli per il tempo necessario a contenere la diffusione del virus. Negli Stati Uniti, in questi giorni, sono stati approvati con procedura d’emergenza dalla FDA (Food and Drug Administration, l'ente governativo che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici) test antigenici rapidi autosomministrati come prodotti da banco. Gli esperti americani ritengono infatti che questa strategia di testing poco costosa, insieme ai vaccini, possa rappresentare il giro di boa per il contenimento dell’infezione da SARS-CoV-2, sottolineando che oltre alla frequenza di autosomministrazione diventa determinante la responsabilizzazione di chi si sottopone allo screening per le conseguenti misure di isolamento.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Acta Biomedica con il titolo “SARS-CoV-2/COVID-19 Testing: The Tower of Babel”. Per l’Università di Bologna hanno partecipato Chiara Reno, Jacopo Lenzi, Davide Golinelli, Davide Gori, Paola Rucci e Maria Pia Fantini del Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie, insieme a Maria Paola Landini, Tiziana Lazzarotto, Maria Carla Re e Davide Trerè del Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale, ed Elisa Avitabile del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie.