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"Ascolta questa": i meccanismi cerebrali che ci permettono di riconoscere la musica

Un gruppo internazionale di studiosi ha messo in luce per la prima volta in che modo il nostro cervello riesce a estrarre significati musicali a partire da una serie di suoni, e cosa succede quando si introducono variazioni all’interno di una sequenza già nota


Una sequenza di note arriva alle nostre orecchie e immediatamente la riconosciamo: è la nostra canzone preferita. Oppure no: le prime note sono quelle, ma poi c’è una variazione e capiamo che si tratta di un’altra canzone. Come ci riusciamo? Quali meccanismi si attivano nel nostro cervello per riuscire a riconoscere e anche ad anticipare una serie di sequenze musicali?

A rispondere è un gruppo internazionale di studiosi che – con un articolo pubblicato su Nature Communications – ha messo in luce per la prima volta in che modo il nostro cervello riesce a estrarre significati musicali a partire da una serie di suoni.

“Scoprire in che modo il cervello riconosce e riesce ad anticipare le sequenze musicali ci permette di ottenere informazioni fondamentali sui meccanismi cerebrali che analizzano le informazioni mentre evolvono nel tempo”, spiega Leonardo Bonetti, ricercatore al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna e professore associato presso il Center for Music in the Brain, Università di Aarhus (Danimarca), e il Centre for Eudaimonia and Human Flourishing, Università di Oxford (Regno Unito), primo autore dello studio. “I risultati che abbiamo ottenuto potranno in futuro essere estesi allo studio dell’invecchiamento per aiutarci a capire come il cervello modifica il modo di processare le informazioni nel corso degli anni. Questi risultati potrebbero avere implicazioni significative per lo studio della demenza”.

La musica è un perfetto strumento per questo tipo di ricerca: una forma artistica che acquisisce il suo significato grazie alla combinazione nel tempo dei suoi elementi costitutivi, i suoni. Per svelare i meccanismi cerebrali che ci permettono di costruire questi significati musicali, gli studiosi hanno utilizzato la magnetoencefalografia (MEG): una tecnica di neuroimaging che permette di registrare l'attività del cervello misurando i campi magnetici prodotti dalle correnti elettriche al suo interno.

Agli 83 partecipanti coinvolti nell’esperimento sono state prima presentate alcune sequenze musicali da memorizzare e in seguito, mentre la loro attività cerebrale veniva registrata, gli sono state fatte ascoltare sia sequenze uguali a quelle memorizzate che sequenze con alcune variazioni sistematiche al loro interno.

I risultati hanno mostrato una complessa rete di aree cerebrali che si attivano e lavorano insieme per processare e riconoscere la musica. A partire dalla corteccia uditiva, si attivano connessioni che si estendono verso l’interno del cervello, all’ippocampo, al giro cingolato anteriore e al giro cingolato mediale: aree cerebrali associate alla memoria e ai processi di previsione. Allo stesso tempo, però, l’esperimento ha messo in luce connessioni che si attivano in direzione opposta.

“Quando ascoltiamo una canzone che conosciamo, il nostro cervello risponde in modo distinto a ogni singola nota che compone la sequenza musicale, attivando uno scambio di informazioni dalla corteccia uditiva verso le aree più interne e viceversa”, dice Bonetti. “Quando però il cervello rileva una variazione all’interno di una sequenza conosciuta, lungo lo stesso percorso si attiva un’anticipazione consapevole dell’errore, con una risposta particolarmente forte e rapida dell’ippocampo e del giro cingolato in corrispondenza dei suoni che introducono la variazione”.

Il funzionamento di questi meccanismi di risposta è in linea con la teoria del “predictive coding”, secondo la quale il nostro cervello è costantemente al lavoro nel fare previsioni a partire dalle informazioni sensoriali in ingresso. Quando queste previsioni sono confermate, o quando al contrario vengono contraddette, diverse regioni cerebrali si attivano di conseguenza, ognuna con specifiche dinamiche temporali e relazioni gerarchiche.

“La teoria del predictive coding ci offre un quadro importante per decifrare i complessi processi cognitivi della nostra mente, ma le evidenze quantitative per poterla confermare nell’ambito della memoria sono finora limitate”, conclude Bonetti. “I risultati di questo studio sono un passo avanti in questa direzione, perché offrono dati sulle gerarchie funzionali che si attivano nel cervello durante il riconoscimento sia di sequenze musicali memorizzate che di variazioni inattese”.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications con il titolo “Spatiotemporal brain hierarchies of auditory memory recognition and predictive coding”. Per l’Università di Bologna ha partecipato Leonardo Bonetti, ricercatore al Dipartimento di Psicologia. Lo studio è stato realizzato mediante una collaborazione internazionale fra le Università di Bologna, Oxford e Aarhus e il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston ed è stato supportato da Danish National Research Foundation (DNRF), Carlsberg Foundation e Lundbeck Foundation.