(Foto: Tommaso Nuti)
Dei 186 lupi trovati morti in Italia tra il 2018 e il 2022, ben 115 (il 62%) sono risultati positivi al test per la presenza di Anticoagulanti Rodenticidi di seconda generazione: veleno per topi. In gran parte dei casi i lupi sono deceduti per altre cause (spesso trauma da investimento), ma il dato – riportato in un articolo su Science of the Total Environment – mostra che queste sostanze topicide si diffondono in natura fino ad arrivare ai vertici della catena alimentare.
"Abbiamo preso in considerazione un grande predatore all’apice della piramide alimentare, dimostrando come la diffusa positività agli Anticoagulanti Rodenticidi sia il sintomo della penetrazione di queste sostanze nelle reti trofiche, coinvolgendo l’ambiente e l’ecosistema", spiega Carmela Musto, assegnista di ricerca al Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie dell’Università di Bologna e prima autrice dello studio. "I nostri risultati indicano che le pratiche di controllo dei roditori basate sull’uso di composti chimici non sono realmente selettive, ma determinano anzi una contaminazione importante di altre specie, spesso protette o con uno stato di conservazione non sempre ottimale".
Alla base dei rodenticidi, le sostanze tossiche comunemente utilizzate nel controllo di topi e ratti, ci sono composti come il Bromadiolone, il Brodifacoum ed il Difenacoum. Tracce di questi composti sono state trovate dagli studiosi nella maggioranza dei lupi analizzati. In particolare, sia il numero di sostanze rodenticide che la loro concentrazione sono risultati più alti nei lupi che hanno vissuto in contesti più antropizzati, con un trend di crescita visibile a partire dal 2020.
"Questi risultati ci dicono che i lupi hanno un’ecologia alimentare più complessa di quanto precedentemente immaginato", dice ancora Musto. "Probabilmente, gli individui che vivono in ambienti antropizzati basano una parte importante della propria dieta sui roditori, come i ratti o le nutrie, e questo li espone al rischio di contaminazione da anticoagulanti".
Anche se il controllo dei roditori dovrebbe essere selettivo, con l'obiettivo di uccidere solo topi e ratti, nella realtà i principi attivi dei rodenticidi permeano nella catena trofica e arrivano insomma fino ai vertici della piramide alimentare. Diversi studi avevano già trovato valori simili in specie che si nutrono principalmente di roditori, come le volpi o i rapaci diurni e notturni, ma valori così alti erano difficilmente ipotizzabili per un grande carnivoro come il lupo.
"È necessaria una revisione della normativa che regola le campagne di derattizzazione, per limitare l’uso dei rodenticidi e favorire invece l’adozione di altre pratiche di controllo dei roditori, più sicure per la fauna selvatica e l’ambiente", suggerisce Musto. "E abbiamo anche bisogno di studi che quantifichino il reale livello di selettività delle pratiche di controllo dei roditori, ovvero che stabiliscano quanto i ratti si muovano nell’ambiente dopo avere consumato prodotti rodenticidi, e in che misura possano essere predati dai carnivori oppure consumati una volta deceduti".
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment con il titolo "First evidence of widespread positivity to anticoagulant rodenticides in grey wolves (Canis lupus)". Per l'Università di Bologna hanno partecipato Carmela Musto e Mauro Delogu del Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie.