Uno studio internazionale ha mostrato per la prima volta una forte e diretta connessione tra l’aumento di batteri resistenti agli antibiotici e le procedure di disinfezione universale dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Lo studio – pubblicato sulla rivista The Lancet Microbe – suggerisce un ripensamento delle linee guida seguite dalle strutture sanitarie per l’utilizzo su larga scala dei disinfettanti.
“La nostra ricerca mette in luce le conseguenze involontarie della decolonizzazione universale, in un contesto globale dove la resistenza agli antibiotici è una minaccia crescente”, dice Marco Oggioni, professore ordinario presso il Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. “La gestione responsabile degli interventi coordinati per la prevenzione delle infezioni antibiotico-resistenti è un tema fondamentale, ma questo non dovrebbe mai ostacolare la nostra rivalutazione critica degli strumenti che utilizziamo per raggiungere tali obiettivi”.
La decolonizzazione universale è una procedura preventiva applicata sui pazienti quando vengono ricoverati in terapia intensiva: tutto il corpo viene disinfettato con clorexidina, un disinfettante ampiamente utilizzato anche per sanificare dispositivi medici e superfici ospedaliere, e viene applicato un trattamento nasale con un altro disinfettante chiamato mupirocina.
La procedura è stata introdotta negli anni '90 ed è risultata efficace nel contenere la diffusione dell'MRSA (Methicillin-Resistant Staphylococcus aureus), lo stafilococco resistente alla meticillina: un batterio resistente ad alcuni antibiotici che può provocare infezioni gravi.
Per diversi anni l'utilizzo della decolonizzazione universale ha ridotto la prevalenza di infezione da MRSA dal 30-40% a meno del 5% in molti paesi fra i quali la Scozia, dove è stato realizzato questo studio. Lo scenario in Italia è diverso, perché secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanita siamo ancora al 26% di MRSA.
"Attualmente ci sono pratiche diverse all'interno delle strutture sanitarie nel Regno Unito: alcuni ospedali adottano la decolonizzazione universale per tutti i pazienti, mentre altri scelgono un approccio più mirato che prevede la decolonizzazione solo dei pazienti risultati positivi all'MRSA", spiega Oggioni. "Di conseguenza, negli ospedali che praticano la decolonizzazione universale su tutti i pazienti, vengono utilizzati volumi molto maggiori di disinfettanti come clorexidina e mupirocina".
Prendendo in considerazione due strutture sanitarie scozzesi che utilizzano questi due differenti approcci alla decolonizzazione, gli studiosi hanno quindi confrontato i livelli di infezione batterica e i tassi di resistenza agli antibiotici dei pazienti ricoverati in terapia intensiva nel corso di 13 anni.
I risultati mostrano che nell'ospedale che praticava la decolonizzazione universale per tutti i pazienti erano più alte le infezioni causate dal superbatterio MRSE (Methicillin-Resistant Staphylococcus epidermidis), lo stafilococco epidermidis resistente alla meticillina: un'infezione meno diffusa dell'MRSA, ma oggi in forte aumento e resistente a diversi tipi di antibiotici.
"I risultati che abbiamo ottenuto mostrano che l'uso eccessivo di disinfettanti nella pratica della decolonizzazione universale potrebbe non offrire vantaggi in termini di controllo delle infezioni, ma causa invece l'aumento involontario delle infezioni da MRSE", conferma la professoressa Hijazi, coordinatrice dello studio. "Nei reparti di terapia intensiva in cui il rischio di infezioni da MRSA è basso, l’impiego indiscriminato della decolonizzazione potrebbe quindi risultare non solo inefficace, ma anche potenzialmente dannoso".
"Questo vale per regioni dove la prevalenza di MRSA è bassa, come la Scozia", ricorda Oggioni. "In Italia invece il rischio di infezione da MRSA è in diminuzione ma ancora molto alto, motivo per il quale la decolonizzazione sia mirata che universale è ancora necessaria. Quindi sarà necessario diminuire anche in Italia la prevalenza di MRSA prima di rivalutare i rischi e benefici collegati alle procedure di intervento".
Gli autori dello studio suggeriscono dunque di rivalutare le procedure oggi in uso alla luce dei cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. Sono necessarie nuove linee guida standardizzate che indichino i trattamenti di decolonizzazione più efficaci, tenendo conto sia dei benefici per la lotta alle infezioni che delle potenziali controindicazioni sul fronte dell’antibiotico resistenza.