Nei giorni scorsi, si è spento il professor Giulio Soravia, docente di Linguistica e Glottologia e, in seguito, di Lingua a Letteratura araba all’Alma Mater, dopo un precedente incarico all’Università di Catania.
Riassumere in poche righe il suo percorso intellettuale e accademico è difficile, forse impossibile. Soravia è stato un intellettuale eclettico, che si è mosso ben al di là degli “steccati” dei settori scientifico-disciplinari e ha seguito percorsi non ortodossi e assolutamente atipici. Se si dovesse individuare un filo conduttore nella sua ricchissima ricerca e nella sua vastissima produzione bibliografica, esso coinciderebbe probabilmente con l’interesse verso ciò che è “piccolo”, “minoritario’, “emarginato”.
È stato il primo in Italia a studiare la lingua romaní, parlata soprattutto da Rom e Sinti. Prova di questo suo interesse è la collana, da lui fondata e diretta presso l’editore Bonomo, Le lingue incatenate, che ha prodotto negli anni preziose descrizioni di lingua quasi sempre del tutto ignorate dalla comunità scientifica.
Per quasi tutta la sua carriera ha continuato a studiare l’origine delle lingue umane, tema a lungo letteralmente bandito dalle società delle scienze del linguaggio, sul quale ha pubblicato, circa dieci anni or sono, il ricchissimo L’alba delle parole (Pàtron). Sempre in questo ambito, ha tenacemente contribuito a ricostruire il pensiero di un linguista controverso come Alfredo Trombetti.
Soravia è stato uno studioso unico, nel senso letterale del termine: ha sempre assecondato la propria curiosità, anche quando per farlo serviva coraggio. Era attratto da dettagli solo apparentemente insignificanti, dallo sfondo più che da ciò che sta in primo piano. Seguiva con tenacia piste di ricerca che altri trascuravano e che pochi notavano, in quanto non mainstream e, di certo, accademicamente non redditizie. Il patrimonio di dati e conoscenze che ci lascia in eredità è davvero inestimabile.