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Famiglia, sostantivo femminile: ma in Senegal il Codice lo fanno gli uomini (mariti, giudici e legislatori)

Nell'ambito dell'iniziativa PhD Storytelling Lab, Ndack Mbaye, dottoranda al Dipartimento di Scienze Giuridiche, parla del Code de la famille del Senegal, varato da un comitato composto di soli maschi, è fallito perché è stato sottovalutato il potere della tradizione

La rassegna delle storie di ricerca raccontate da giovani protagonisti nasce dall'iniziativa PhD Storytelling, che ha visto dottorande e dottorandi confrontarsi con esperti di divulgazione e comunicazione dell'Università di Bologna e professionisti di UGIS (Unione Giornalisti Italiani Scientifici). Autrice di questo articolo è Ndack Mbaye, dottoranda al Dipartimento di Scienze Giuridiche

 

Legiferare è scegliere. Scegliere è eliminare. Questa la lente con cui dobbiamo guardare al lavoro che, nel 1972, ha portato lo Stato del Senegal (16 milioni di abitanti nell'Africa occidentale che si affaccia sull'oceano Atlantico) a promulgare il suo Codice della Famiglia dopo l’indipendenza dalla Francia proclamata il 4 aprile 1960. Un Codice che, soprattutto nell'ambito del matrimonio, riflette l’afflato di conciliazione che attraversava un Paese chiamato a tenere insieme un patrimonio normativo vasto e variegato: il diritto moderno, quello religioso e le norme di “diritto tradizionale”.


Il concetto di tradizione può infatti celare due anime: da un lato una positiva, legata alla memoria e al patrimonio di conoscenza di un popolo, da non perdere con il tempo; dall’altro una negativa, legata all’avversione per qualsiasi cosa nuova possa far cambiare il modello per cui si afferma “si è sempre fatto così”. Ci troviamo difronte come ad un particolare Giano bifronte: da un lato la moglie e dall’altro il marito nella stessa testa. Ma quale sguardo, dei due, viene tenuto di più in considerazione nella società?

Il risultato, ancora oggi, è quello di unioni riconosciute nella forma del matrimonio civile e del matrimonio tradizionale, successivamente accertato o meno di fronte all’ufficiale di stato civile.

Nonostante le minori garanzie formali, però, la maggior parte della popolazione (dall’ultimo censimento si parla del 75%) continua a preferire il matrimonio tradizionale non accertato. Ciò vale anche per il divorzio legato indissolubilmente ad antichi comportamenti, per le modalità in cui viene gestita la poligamia.

Un dato che testimonia una resistenza culturale alle norme codificate in ambito di diritto di famiglia. Ma il punto è, forse, dopo una gestazione di 11 anni: questi scarsi risultati dichiarano il fallimento del legislatore? Occorre considerare che in una società ancora patriarcale giudici e legislatori che prendono le decisioni sono per lo più di sesso maschile? Per abbozzare una risposta è necessario delineare meglio il quadro storico.

Un balzo indietro nel tempo. Nel 1960, con le prime indipendenze nell'Africa francofona, inizia per i neonati Stati indipendenti dell’area un periodo di intensi cambiamenti legislativi. I nuovi Stati africani, come il Senegal, ottengono finalmente la possibilità di scegliere il proprio ordinamento giuridico. Questo significava poter sviluppare un diritto di derivazione coloniale in sintonia con i valori indigeni oppure creare una nuova cornice formale che integrasse le tradizioni e le credenze locali.

I giuristi senegalesi, formati nelle università francesi, consideravano il diritto tradizionale come cristallizzato e incapace di evolversi, vedendolo come un ostacolo allo sviluppo. Keba Mbaye, che fu presidente della Corte Suprema, evidenziava come il diritto di famiglia, profondamente radicato nelle tradizioni, fosse appunto inconciliabile con le esigenze di sviluppo economico e sociale imposte dalla nuova scena internazionale. Si optò dunque per un sistema ibrido, ma per arrivarci era innanzitutto necessario interrogare, per dirla con una metafora, l’elefante nella stanza: cos’è questo famigerato diritto tradizionale?

Fu così creato il Comitè des Options, presieduto dallo stesso Mbaye, il cui compito era quello di confrontare le rispettive conoscenze dei suoi membri sulle tradizioni e, poi, accordarle alle regole di diritto moderno. Un Comitato composto da tante e variegate voci, che in comune avevano una cosa: erano voci di uomini. Uomini autorevoli, Uomini dell’Accademia, Uomini di fede, Uomini della vita sociale e politica del Paese. Certo. Ma tutti, invariabilmente, “uomini”.

Il comitato discusse lungamente sulla legittimità del proprio operato e sull’opportunità di codificare aspetti tradizionali e religiosi, ma nessuno, mai si interrogò sulla questione di genere. E ciò nonostante numerosi interventi circa una generale necessità di stabilire un’uguaglianza tra i sessi: i parametri di questo slancio non sono definiti né contestualizzati e, ancora oggi, sono un terreno che richiede più profonde analisi per giocarvisi la partita dei diritti di genere nel Paese.

A non voler fare i femministi in giacca e cravatta, forse si sarebbe capito per tempo che il problema della famiglia in generale e questione femminile in particolare, non risiede nel singolo istituto tradizionale. Tradizione non è sinonimo di “primitivo”, “barbaro” e, guardando agli usi nuziali concretamente praticati nel Paese, nemmeno di “anacronistico”. Tutto sta nei modi in cui si decide di guardare alle norme del diritto tradizionale, ognuno portando la verità del proprio posizionamento e senza sacrificarlo precipitosamente all’altare di una civilizzazione che non vuol guardarsi indietro ma nemmeno attorno. E farlo includendo tutte le parti coinvolte, con una lettura coraggiosa e orgogliosa della propria identità.

Legiferare è scegliere. Scegliere è eliminare. Bisogna stare attenti, però, a non scegliere di legiferare esclusivamente con lo scopo di eliminare. Il rischio è quello di venire a propria volta condannati all’irrilevanza.