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Media digitali e semiotica: svelare i miti per capire come cambiano le condizioni della nostra comunicazione

Nell'ambito dell'iniziativa PhD Storytelling Lab, Marco Giacomazzi, dottore di ricerca in Philosophy, Science, Cognition and Semiotics, racconta di come cambiano le competenze per orientarsi nel disordine informativo dell’era digitale, tra scienze cognitive e scienze della cultura

La rassegna delle storie di ricerca raccontate da giovani protagonisti nasce dall'iniziativa PhD Storytelling, che ha visto dottorande e dottorandi confrontarsi con esperti di divulgazione e comunicazione dell'Università di Bologna e professionisti di UGIS (Unione Giornalisti Italiani Scientifici). Autore di questo articolo è Marco Giacomazzi, dottore di ricerca in Philosophy, Science, Cognition and Semiotics

 

Immaginate di essere in una grande biblioteca. Tra migliaia di libri, ne trovate uno fuori posto, la copertina illeggibile, senza informazioni bibliografiche. Iniziate a sfogliare le pagine cercando di capire di cosa parli. Il libro sembra essere una raccolta di racconti, ma non ci sono indici né capitoli numerati. Potrebbe essere un libro di cronaca o di finzione: senza informazioni riguardo al suo contesto, alle circostanze in cui è stato scritto, potete solo fare delle ipotesi, senza confermarne nessuna.


La rivoluzione digitale ha portato con sé delle sfide per la vita sociale e politica, perché ha ridisegnato in pochissimo tempo le condizioni sociali e cognitive della comunicazione. Ci ritroviamo immersi in un panorama sovraccarico di informazioni senza vere direzioni per orientarci, la distinzione tra spazio pubblico e spazio privato è sempre più sfumata. Quali sono le conseguenze per il nostro modo di comunicare? Se pensiamo all’email, ci accorgiamo che il modo in cui la scriviamo è il risultato dell’incontro tra le possibilità che il mezzo di comunicazione ci offre e le convenzioni comunicative che abbiamo adottato collettivamente.

La semiotica si occupa proprio di questo. Studia i nostri processi comunicativi, chiedendosi come è possibile che gesti, oggetti, parole o testi abbiano senso. La ricerca che ho condotto all’Università di Bologna si interroga sulla comunicazione digitale e sulle forme comunicative che adottiamo online. Se non si può dire che i nostri processi cognitivi e comunicativi siano determinati dagli strumenti che utilizziamo, non possiamo neanche sostenere che questi ultimi non vi giochino alcun ruolo.

Non ci sono prove che smartphone, internet, social media ci rendano, da soli, più distratti, o meno empatici. Tuttavia, oggi sappiamo che gli strumenti partecipano alla percezione e alla memoria. Le scienze sociali e quelle cognitive ci dicono che il design di un oggetto tecnologico non è mai neutro, e non lo è neanche il nostro modo di approcciarci ad esso: i segni che ci circondano sono degli appigli per la nostra memoria, e a determinate condizioni devono essere considerati parte dei nostri processi cognitivi. Anche se normalmente pensiamo alla memoria come a qualcosa che è localizzata nella nostra testa, dobbiamo in realtà tenere in considerazione quanto facciamo affidamento a una rete di oggetti, intorno a noi, che ci ricorda ciò che dobbiamo fare, entro quando, per quale scopo. La tecnologia non è qualcosa di esterno all’essere umano, come ci insegna la storia di homo sapiens. Al suo innovarsi, si ridisegnano le condizioni fondamentali del nostro conoscere e del nostro stare insieme, i loro tempi e spazi.

Proprio perché la tecnologia è parte dell’umano, non possiamo pensare alla transizione digitale come a qualcosa di fuori dal nostro controllo. Come dicevamo, le forme della comunicazione dipendono tanto dai mezzi, quanto dalle nostre facoltà cognitive e percettive, quanto dalle convenzioni sociali, e questi tre processi vanno presi in considerazione in parallelo.

“Ceci tuera cela”: Victor Hugo, in Notre Dame de Paris, faceva dire queste parole a Frollo, il quale mostrava prima un libro e, in seguito, la cattedrale parigina. Il romanzo moderno ucciderà la cattedrale, il sapere laico soppianterà il ruolo dell’istituzione religiosa nella trasmissione del sapere alle masse. A Umberto Eco, lume della semiotica in Italia, piaceva citare questo passaggio per parlare del rapporto tra il libro di carta e Internet: più che per segnare una frattura, per far vedere delle continuità.

Un “nuovo” medium non spazza via quello precedente, ma si integra nel sociale portando con sé novità e invarianti: pensiamo al ruolo delle piattaforme dei social media nella circolazione delle notizie. Con il concetto di disintermediazione, si intende normalmente dire che i tradizionali mediatori delle informazioni nello spazio pubblico – come i giornali o le istituzioni – hanno esaurito il loro ruolo, lasciando agli utenti finali un accesso libero e diretto alle informazioni, provocando il dilagare delle fake news. Ma è davvero così? I responsabili della disinformazione sono i lettori? O sono comparsi dei nuovi, diversi mediatori di cui non conosciamo appieno il funzionamento? Possiamo dire che è cambiata quella competenza, sociale e tecnica, che Tullio De Mauro considerava fondamentale per la democrazia: l’alfabetizzazione?

Per questo, attraverso la semiotica vengono studiati fenomeni che prendono in considerazione i nostri processi cognitivi e sociali, come la user experience, mettendoli in relazione con i testi, come quelli del giornalismo digitale, e con la storia dei media. Uno studio di questo genere ha diversi obiettivi, che coinvolgono stakeholders pubblici e privati: in primo luogo, integrare i risultati della ricerca nel paradigma dell’educazione mediale, potenziando i programmi di alfabetizzazione attivi sul territorio nazionale e europeo. Inoltre, il sapere critico della semiotica può intervenire anche sul design degli ambienti mediali, delle loro interfacce e dei loro principi di progettazione.

Nell’immediato futuro, l’emergere dell’Intelligenza Artificiale e il modo in cui progressivamente la stiamo implementando nella nostra vita quotidiana, solleva nuove necessità di ricerca e critica. Il significato emerge lungo processi di azione collaborativi, a partire da uno sfondo comune di saperi condivisi. Su quale livello interverrà l’IA implementata nei nostri dispositivi? Come evitarne gli abusi? Come progettare la collaborazione con questi strumenti per non ricadere nelle trappole della digitalizzazione?