
Il professor Günter Blöschl premiato a Stoccolma da re Carlo XVI Gustavo di Svezia con lo Stockholm Water Prize (Foto: Jonas Borg)
“Mi è sempre piaciuta la forma dell’acqua, la sua dinamica, il suo movimento, e mi è sempre piaciuto costruire macchine, oggetti, strutture: sono le mie passioni sin da quando ero bambino”. È una storia che parte da lontano quella di Günter Blöschl, ingegnere e idrologo di fama internazionale.
Una storia che comincia nelle estati della sua infanzia, passate a costruire dighe tra i ruscelli di montagna o complessi edifici di sabbia in riva al mare, e arriva fino allo Stockholm Water Prize, il “Premio Nobel dell’acqua”, che ha ricevuto poche settimane fa a Stoccolma dalle mani di re Carlo XVI Gustavo di Svezia.
Professore al Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali dell’Università di Bologna e alla Vienna University of Technology, Günter Blöschl ha rivoluzionato il modo con cui guardare alla gestione delle risorse idriche e scongiurare il rischio di alluvione. UniboMagazine lo ha incontrato per ripercorrere i suoi studi e capire come il cambiamento climatico e l'intervento umano sul territorio stanno modificando il nostro rapporto con l’acqua.
Professor Blöschl, com’è andata a Stoccolma? Come ci si sente a ricevere il “Premio Nobel dell’acqua”?
È stato incredibile: ero quasi preoccupato di svegliarmi e scoprire che si trattava solo di un sogno. La premiazione si è svolta nel municipio di Stoccolma, in una grande sala dorata, con circa duecento invitati, diversi ministri e il re e la regina di Svezia: a tutti loro ho parlato della mia storia, della mia famiglia e delle mie passioni. Mentre il giorno dopo, nell’ambito della Settimana dell’Acqua di Stoccolma, ho avuto modo di discutere del mio lavoro davanti a migliaia di persone.
Nelle motivazioni per il premio si parla del suo lavoro pionieristico nel campo della “socioidrologia”: di cosa si tratta?
Se devo studiare il comportamento di un bacino idrico, l'idrologia tradizionale prevede lo studio di questo bacino nel suo aspetto naturale. Oggi però non esistono più bacini idrici naturali: l'impronta dell'uomo è ovunque, nel cambiamento dell'uso del suolo, nell'urbanizzazione, nella costruzione di infrastrutture, dighe, canali. Gli esseri umani oggi sono parte del ciclo idrologico. È questa la nuova prospettiva: l'azione dell'uomo deve essere considerata e calcolata insieme agli altri fattori idrologici. Molti colleghi all'inizio erano scettici, ma oggi l'approccio della socioidrologia è condiviso in tutto il mondo.
All’azione dell’uomo sul territorio si aggiungono però anche gli effetti del cambiamento climatico.
Certamente: la sfida è analizzare e considerare tutti questi elementi, con la consapevolezza che ci troviamo in mezzo a cambiamenti molto complessi, con situazioni diverse a seconda dei diversi contesti territoriali.
Ad esempio?
Prendiamo il caso dell’Italia. I dati statistici ci dicono che nei bacini idrici più grandi, nei grandi fiumi, le piene stanno diminuendo, e quindi diminuisce il rischio di alluvioni. Questo perché l’aumento delle temperature fa aumentare l’evaporazione dell’acqua e i periodi più lunghi di siccità aumentano l’assorbimento dell’acqua nel suolo. Per i bacini più piccoli, però, la tendenza è opposta, perché un altro effetto del cambiamento climatico è l’aumento di temporali molto intensi, brevi e concentrati su piccoli territori.
Cosa succede in questi casi?
Questi fenomeni temporaleschi molto intensi mettono in difficoltà i bacini più piccoli, che non hanno lo spazio per assorbire grandi quantità d’acqua concentrate in poco tempo e in una piccola regione. Una dinamica che inevitabilmente aumenta il rischio di alluvioni.
E cosa si può fare per gestire questi fenomeni?
Abbiamo due tipi di strumenti. Da un lato ci sono gli strumenti strutturali, come la costruzione di argini, di dighe, di canali scolmatori. Proprio l’uso dei canali scolmatori, ad esempio, ha funzionato molto bene lo scorso anno a Vienna per superare una grande piena. Poi ci sono gli strumenti non strutturali, che comprendono ad esempio la pianificazione territoriale, per decidere dove si possono e dove non si possono costruire case e infrastrutture, ma anche i piani di emergenza, le prove di evacuazione e in generale le attività di informazione e comunicazione ai cittadini.
Questi strumenti non strutturali includono anche il comportamento dei singoli cittadini?
Per la gestione del rischio alluvionale gli strumenti non strutturali sono fondamentali, perché permettono risposte rapide, mentre le strutture idrauliche sono rigide, costose e richiedono tempi lunghi di costruzione. Se guardiamo alle alluvioni che hanno colpito la Germania nel 2021 o a quella che ha colpito Valencia lo scorso anno, vediamo che molte persone hanno perso la vita perché sono scese nei loro garage per prendere l’automobile. Serve un cambiamento culturale: la corretta informazione e la preparazione dei cittadini possono fare la differenza tra la vita e la morte.
Cosa possiamo fare per attuare questo cambiamento culturale?
La consapevolezza del rischio è il primo aspetto fondamentale: la forza dell’acqua è enorme, ma è molto facile sottovalutarla. Poi servono spazi di dialogo. Oggi siamo di fronte a una sfida comune e dobbiamo cooperare per superarla: servono occasioni in cui è possibile confrontarsi e discutere in modo sereno di temi anche difficili, complessi, spinosi. E serve un lavoro di armonizzazione dei diversi enti coinvolti nella gestione delle acque. Ci sono enti locali, enti regionali, enti nazionali: per una gestione del rischio efficace, il lavoro delle istituzioni deve essere ben integrato e ben organizzato.