
Il campo geotermale di Allalobad, nella regione dell’Afar, in Etiopia
Non appena si apre lo sportello del fuoristrada, un’ondata di aria calda avvolge ogni cosa. Sotto un sole rovente e un enorme cielo azzurro, il paesaggio è quello di un vecchio film di fantascienza. Ci sono decine di pozze d’acqua bollente coperte da una patina verdastra. Lunghe strisce gialle e spumose attraversano il terreno. Getti di vapore si sollevano improvvisi dal suolo, mentre sullo sfondo emergono rocce appuntite, colorate di rosso e di arancione. Sembra di essere precipitati in un mondo extraterrestre. Ed è proprio questo il punto.
Siamo nel campo geotermale di Allalobad, nella regione dell’Afar, in Etiopia. Un luogo che è stato identificato come “analogo marziano”. Perché per le sue caratteristiche estreme, di temperatura, acidità e concentrazione di metalli, si avvicina alle condizioni che potevano esserci su Marte miliardi di anni fa. Quando lassù, forse, si erano sviluppate primitive forme di vita.
Barbara Cavalazzi e Rebecca Martellotti nel campo geotermale di Allalobad
“Allalobad è uno straordinario laboratorio naturale per lo studio di possibili tracce di vita extraterrestre: qui riusciamo a vedere come si sviluppa e si distribuisce l’attività biologica in condizioni estreme e quali testimonianze restano quando questa attività si esaurisce”. Barbara Cavalazzi, astrobiologa e professoressa al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, visita da anni siti come questo alla ricerca delle condizioni più estreme in cui può nascere la vita. Un’indagine che parte dal nostro pianeta, ma guarda allo spazio, e in primo luogo a Marte. “Sappiamo che miliardi di anni fa su Marte c’era acqua liquida – dice - e ci aspettiamo che ci fossero sistemi geotermali molto simili a questo. Lo studio del sito di Allalobad può aiutarci a capire dove cercare e raccogliere possibili tracce di vita marziana”.
Non a caso, a finanziare le attività di ricerca nel sito di Allalobad è l’Agenzia Spaziale Italiana. Insieme all’Università di Bologna, il progetto, chiamato HELENA, coinvolge studiosi dell’IRSP (International Research School of Planetary Sciences), dell’Università della Tuscia e della Sezione di Palermo dell’INGV. La prospettiva è quella delle prossime missioni spaziali dirette su Marte, a partire da ExoMars, con cui l’Agenzia Spaziale Europea farà atterrare un rover in grado di analizzare campioni di roccia marziana che potrebbero contenere tracce di vita. E si stanno già ipotizzando nuove missioni per recuperare i campioni raccolti e riportarli sulla Terra.
“Oggi siamo in grado di arrivare su Marte con un rover e prelevare dalla superficie dei campioni da studiare”, dice Cavalazzi. “Ma il problema è: quali campioni scelgo? Come faccio a capire quali sono quelli che potrebbero contenere tracce di vita? Lo studio degli analoghi marziani che stiamo portando avanti serve proprio a questo”.
La varietà di colori accesi che contribuiscono a dare un aspetto alieno al campo geotermale di Allalobad deriva dall’attività biologica che fiorisce attorno alle pozze di acqua calda, alle fumarole e ai geyser. A ogni colore corrisponde una specie microbica capace di sopravvivere a particolari condizioni e temperature estreme.
“Grazie alle eccezionali condizioni del sito di Allalobad, possiamo studiare quali organismi riescono a vivere lungo gradienti estremi di temperatura, acidità e altre caratteristiche”, spiega Cavalazzi. “E possiamo anche trovare tracce fossili di questa variegata attività microbica: sono tutti elementi che ci aiutano a capire come selezionare i campioni giusti da prelevare sulla superficie di Marte”.
Rebecca Martellotti, dottaranda in Astrobiologia
Fare ricerca in posti come Allalobad non è però affatto semplice. Le temperature estreme, il terreno paludoso e incerto, l’elevatissima acidità rendono la vita degli studiosi molto complicata.
Lo sa bene Rebecca Martellotti, che sta facendo un dottorato in Astrobiologia all’Università di Bologna e lo scorso gennaio ha partecipato alla prima campagna di indagine ad Allalobad. “Ci si alza alle quattro per arrivare sul posto all’alba e lavorare nelle prime ore del mattino: dopo diventa troppo caldo”, racconta. “E bisogna stare molto attenti a dove si mettono i piedi perché c’è il rischio di finire dentro una pozza di acqua bollente”.
Originaria di La Spezia, Rebecca è arrivata a Bologna per studiare Scienze biologiche, si è trasferita a Trieste per la laurea magistrale ed è poi tornata all’Alma Mater per il dottorato. “Ho sempre voluto fare la biologa e al liceo ho scoperto l’astrobiologia, che mi ha subito affascinato”, dice. “A quel punto, ho cercato quali fossero i percorsi di studio specializzati su questo argomento, ed eccomi qui”.
Prima del viaggio in Etiopia aveva già fatto un’esperienza sul campo a Pantelleria, dove i ricercatori del progetto HELENA stanno studiando l’attività batterica nei pressi di un lago vulcanico. Poi è arrivata la campagna di campionamento ad Allalobad. “È stato faticoso sia a livello fisico che mentale, ma è stato anche entusiasmante”, racconta. “Ogni giorno era una nuova scoperta e non vedevo l’ora di ricominciare”.
Quando esplorano queste aree remote e con caratteristiche uniche, le studiose e gli studiosi si muovono sempre insieme a guide locali, che sanno scegliere dove passare e quali luoghi evitare: un modo non solo per ridurre i rischi, ma anche per creare contatti preziosi con le popolazioni del posto. “Il rispetto per gli abitanti locali è un elemento centrale delle nostre campagne di ricerca”, conferma Barbara Cavalazzi. “Non vogliamo semplicemente arrivare, prelevare campioni e andarcene: vogliamo incontrare le persone che vivono in queste regioni e coinvolgerle nel nostro lavoro, anche cooperando con le università e i ricercatori locali”.
Questi contatti sono di grande aiuto anche per capire come adattarsi a lavorare in luoghi così particolari. Acqua sempre a portata di mano, molta attenzione a dove si mettono i piedi e un certo livello di creatività nel gestire la strumentazione sono le indicazioni fondamentali. “Con i livelli estremi di acidità che si trovano in luoghi come Allalobad, tutto ciò che è metallico si usura molto rapidamente”, dice Cavalazzi. “In passato abbiamo avuto problemi con le batterie, i cavi, le macchine fotografiche e anche strumenti classici come martelli e pinze: solo con l’esperienza e il confronto continuo siamo riusciti un po’ alla volta a trovare delle soluzioni per riuscire a portare avanti le nostre attività senza imprevisti”.
Liliana Balotti ha studiato Scienze Naturali e partecipato a una campagna di ricerca in Etiopia
Resta comunque un fatto straordinario: in un luogo che per noi è così inospitale, la vita non è assente, anzi fiorisce con una miriade di microrganismi. Sono osservazioni come queste che suggeriscono la possibilità che possa succedere qualcosa di simile anche in mondi extraterrestri.
“Cercare di capire quali sono gli elementi necessari per far scattare la scintilla iniziale della vita mi incuriosisce tantissimo”, dice Liliana Balotti, che ha partecipato a una campagna di ricerca in Etiopia durante il suo percorso di studi in Scienze Naturali all’Università di Bologna. Liliana ha raccolto e studiato campioni di stromatoliti moderne, che sono un analogo delle più antiche testimonianze fossili di forme di vita sul nostro pianeta. “C’è stato un periodo in cui la Terra e Marte avevano condizioni simili tra loro e sappiamo che sulla Terra, in quel periodo, si sono sviluppate forme di vita: questo suggerisce che anche su Marte possano essere nati organismi dello stesso tipo”.
La passione di Liliana per gli ambienti estremi non si limita però all’astrobiologia: si spinge direttamente verso lo spazio. Oltre ad essere una studentessa e giovane ricercatrice è infatti un’astronauta analoga. “Sono sempre stata appassionata di spazio e uno dei miei sogni è diventare astronauta”, conferma. “Così mi sono candidata per partecipare alla simulazione di una missione lunare e sono stata scelta”.
Per una settimana, Liliana ha vissuto da astronauta, sperimentando l’isolamento dal mondo esterno, la gestione di risorse limitate e una routine quotidiana molto diversa da quella a cui era abituata. “Anche un astronauta nello spazio può essere visto come una forma di vita in un ambiente estremo”, dice. “Missioni come queste servono proprio a capire in che modo gli esseri umani reagiscono quando sono sottoposti a condizioni particolari di stress fisico, ambientale e psicologico”.
Chi si occupa di astrobiologia, del resto, non può che avere la mente rivolta verso lo spazio, e verso Marte in particolare. Perché lassù potremmo trovare risposte non solo sulla presenza di potenziali forme di vita extraterrestre, ma anche sull’origine della vita nel nostro pianeta.
E la storia di Marte può insegnarci qualcosa anche sul nostro futuro. “A un certo punto della sua evoluzione, Marte ha iniziato a perdere l’acqua presente sulla sua superficie, fino a desertificarsi: se esistevano forme di vita, a quel punto devono essere scomparse”, dice Barbara Cavalazzi. “Questo ci deve ricordare che non esiste un ‘Pianeta B’. Anche se trovassimo un esopianeta abitabile in un altro sistema solare, per molto tempo ancora non avremo le tecnologie necessarie per raggiungerlo. Quindi dobbiamo tenerci stretto il nostro mondo, curare la Terra e preservare le straordinarie caratteristiche che rendono possibile l’esistenza della vita”.
Il progetto HELENA è guidato da Barbara Cavalazzi (Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali - BiGeA e CIRI-Aerospaziale), con la partecipazione di Sandra Cristino, Federico Lucchi e Marco Cantonati del BiGeA e di Assimo Maris (Dipartimento di Chimica "Giacomo Ciamician"). Collaborano, inoltre, Rebecca Martellotti, Marlisa De Brito, Luna Girolamini e Alice Tarozzi, giovani ricercatrici del BiGeA.
Il progetto coinvolge anche l’IRSP – International Research School of Planetary Sciences (co-PI Monica Pondrelli), l’Università della Tuscia (co-PI Laura Zucconi Galli Fonseca), l’INGV – Sezione di Palermo (co-PI Giovannella Pecoraino), e l’esperto della regione Dancalia, Luca Lupi.