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Memoria, paura e neuroscienze: un’intervista a Simone Battaglia

Giovane ricercatore al Dipartimento di Psicologia dell’Alma Mater, ha ricevuto tre prestigiosi riconoscimenti internazionali negli ultimi due anni. Il racconto del suo percorso scientifico tra cervello, cuore, memoria ed emozioni

Foto di Juliane Weicker, Leipzig

Simone Battaglia, ricercatore al Dipartimento di Psicologia "Renzo Canestrari", non studia soltanto cosa ricordiamo, ma soprattutto cosa accade nel nostro corpo mentre lo facciamo. Quando il ricordo è legato alla paura o addirittura un trauma, quella memoria può condizionare profondamente la vita di una persona. È possibile “spegnere la paura”, scinderla dal ricordo a cui è associata? È l’obiettivo della sua ricerca.

I suoi studi si concentrano inoltre sulle interazioni tra cervello e cuore, sulla memoria emotiva e sul potenziale delle nuove tecnologie nella diagnosi e nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico.

In questa intervista racconta il suo percorso, fra sfide affrontate e prospettive future, e il valore scientifico e umano della sua ricerca.

Simone, su cosa si concentrano i tuoi studi?

Mi occupo di neuroscienze: le scienze che studiano il funzionamento del cervello, da un punto di vista funzionale oltre che anatomico. Nello specifico, studio memoria, emozioni, attenzione, percezione e come questi processi interagiscono tra loro. Soprattutto, mi occupo del legame tra memoria ed emozioni, in particolare in relazione alla paura e ai traumi. La mia ricerca indaga quali strutture cerebrali sono coinvolte in queste esperienze e come è possibile intervenire per ridurre l’impatto della paura, lasciando però intatto il ricordo.

Hai ricevuto per i tuoi studi l’ESCAN 2024 nell’ambito delle neuroscienze affettive, l’FESN Prize 2025 nell’ambito della neuropsicologia clinica e recentemente l’SPR Early Career Award 2025 nell’ambito della psicofisiologia: di cosa si tratta?

L’SPR Early Career Award 2025, conferito dalla Society for Psychophysiological Research (SPR), è un premio di caratura mondiale assegnato da una delle società più rilevanti nel campo della psicofisiologia. È quindi un riconoscimento della rilevanza globale dei miei studi e del loro impatto scientifico. In questo ambito, le mie ricerche si sono concentrate sulle risposte neuro-cardiache della paura, cioè su come cervello influenza i ritmi cardiaci quando si prova paura. Ho dimostrato, per esempio, che prima della tachicardia da paura, il cuore va in bradicardia, cioè rallenta bruscamente. È probabilmente un meccanismo evolutivo, una sorta di “preparazione alla minaccia”. Era stato ipotizzato in passato; ora è dimostrato scientificamente.

Tre riconoscimenti internazionali in due anni. Secondo te, cosa ha fatto la differenza?

Credo l'innovazione, nei temi e nei metodi. Ho messo in discussione vecchie teorie, per proporne e dimostrarne di nuove, affrontando i problemi da più punti di vista: scientifico, clinico e tecnico. Ho cercato di integrare approcci diversi, da quelli più ingegneristici a quelli più psichiatrici, con l’obiettivo di rispondere a domande complesse sul rapporto tra cervello, emozioni e comportamento. Penso sia stato valorizzato non solo il rigore metodologico, ma anche il tentativo di costruire ponti tra discipline e di portare questi risultati verso un’applicazione concreta.

Le collaborazioni internazionali hanno avuto un ruolo chiave nel tuo percorso?

Certo: collaboro con gruppi di ricerca da Melbourne a Los Angeles. Queste connessioni sono fondamentali per accedere a strumentazioni, competenze e visioni differenti.

Quali sono state le sfide più difficili da affrontare?

Il mio ambito di ricerca è relativamente nuovo in Italia; quindi, non è ancora molto strutturato e la disponibilità di fondi è attualmente contenuta.

La tua ricerca ha avuto applicazioni cliniche?

Sì, prevalentemente negli Stati Uniti, dove alcuni studi sono stati tradotti in trial clinici. Stiamo lavorando per rendere queste scoperte comuni pratiche cliniche nella diagnosi e nel trattamento di disturbi come ansia, fobie, PTSD (Post Traumatic Stress Disorder). Abbiamo identificato un biomarcatore neuro-cardiaco che potrebbe, un giorno, essere usato per capire quanto un trattamento sta funzionando, o per diagnosticare precocemente alcuni disturbi psichiatrici.

Ci sono implicazioni etiche nel “modificare” la memoria della paura?

Sì, e seguiamo protocolli etici molto rigidi. Ma è importante chiarire: non modifichiamo i ricordi, non cancelliamo esperienze traumatiche. Lavoriamo invece sulla risposta emotiva associata a quei ricordi. Se una persona ha subito un trauma, l’obiettivo è aiutarla a non avere paura, non a dimenticare. È un principio fondamentale.

Come si evolveranno le neuroscienze nei prossimi 10-20 anni?

Credo che le tecniche attuali diventeranno più potenti e precise, e si andrà verso una maggiore integrazione tra strumenti. L’Intelligenza Artificiale avrà un ruolo crescente: non per sostituire ricercatrici e ricercatori, ma per aiutarli a vedere ciò che l’occhio umano non coglie.

Che impatto vorresti avesse la tua ricerca sulla società?

Vorrei che non restasse solo all’interno dei laboratori. Spero che un giorno i frutti dei miei studi possano essere parte del sistema sanitario, accessibili a tutte e tutti. Mi piacerebbe si prevedesse, ad esempio, lo psicologo di base, come oggi abbiamo il medico di base. Ognuno di noi attraversa momenti difficili: dovremmo avere strumenti concreti per affrontarli.

Oggi è più accettato parlare di traumi e disagio psicologico?

Sì, molto di più. Soprattutto le ragazze e i ragazzi oggi parlano delle loro emozioni, chiedono aiuto. Vent’anni fa tutto ciò era quasi un tabù. È un grande passo avanti, ma serve un sistema in grado di rispondere: bisogna offrire aiuto reale.

Un consiglio per i giovani ricercatori?

Non mollare mai. Ho fallito tante volte, ma ho sempre riprovato. Fallire è la chiave del successo probabilmente. Serve motivazione vera, quella che viene da dentro. Io scelgo collaboratrici e collaboratori non per le competenze che hanno, ma per la loro motivazione. Perché quella non si può insegnare. Se credi in quello che fai, e in te stesso, puoi farcela.