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A cena con i terroristi

Al Dipartimento di Comunicazione, il giornalista BBC Phil Rees racconta la sua idea di terrorismo e presenta il suo ultimo libro.
Phil Rees

A vederlo e sentirlo parlare non si direbbe che Phil Rees sia uno dei più premiati reporter di guerra e giornalisti d’inchiesta della BBC. Eppure, a dispetto dell’ improbabile abbigliamento (maglia rossa con stella, giacca verde e jeans opportunamente stracciato), i suoi documentari dal Medioriente o dalla Colombia, dall’Irlanda del Nord o dal Kashmir, e le interviste con combattenti e terroristi ricercati dai servizi segreti di mezzo mondo, sono già celebri.

Proprio gli incontri che il reporter britannico (d’adozione, ci tiene a precisare; in realtà è americano) ha avuto con molti dei gruppi terroristici che operano in Egitto, Libano e Algeria e con i guerriglieri di tutto il pianeta, sono al centro del suo ultimo libro, da poco tradotto in Italia con il titolo "A cena con i terroristi. Incontri con gli uomini più ricercati del mondo" (Ed. Nuovi Mondi Media).
Il volume è stato presentato dall’autore giovedì 11 maggio al Dipartimento di Discipline della Comunicazione, e con Rees ne hanno discusso Mauro Sarti, docente di Comunicazione giornalistica, e gli studenti del suo corso.

Dal racconto di Rees emerge un quadro inquietante del livello di violenza e di rischio che oggi il mondo vive. "Dopo l’attacco alle Twin Towers" – dice – "siamo precipitati in una situazione in cui la soglia di tollerabilità della violenza consentita ad uno stato nei confronti di un altro si è molto abbassata". L’idea di Rees è che tale scenario, di cui la guerra in Afghanistan e Iraq sono l’esito peggiore, sia anche il frutto di una distorsione linguistica. Una violenza delle parole e sulle parole, innanzitutto, per cui – con estrema facilità – "tacciamo di terrorismo forme di lotta e azione senza analizzarle con attenzione". Un uso improprio del termine terrorista che non "aiuta a capire il fenomeno terroristico, né a trovare soluzioni serie".

Dalle interviste e le cene con il leader dei gruppi per la salvezza islamica algerina, ad esempio, Rees ricava un identikit per niente chiaro degli uomini che ne fanno parte. Non c’è niente della sbrigativa definizione che ne danno i media occidentali. Per questa ragione la scelta del giornalista della BBC, condivisa dalla sua testata, è di rifiutarsi di usare, in tutti i casi, il termine "terrorismo" per indicare atti di violenza politica che, realmente, "sfuggono ad una definizione rigida e propongono dei fatti, al contrario, solo il punto di vista occidentale".

Alle numerose domande degli studenti sulla sua professione e le ragioni che lo spingono a fare quello che da più di vent’anno fa,  Rees risponde con la propria idea di giornalismo: "le parole hanno un peso, e la parola terrore è una parola inconsulta; crea panico e autorizza reazioni radicali". Pochi termini del vocabolario politico del XX secolo, infatti, hanno un tale potere emozionale, un tale carico etico. Ma l’essenza del giornalismo è "riportare evidenze e non essere guidati dai giudizi morali". Così, se evitare di etichettare fenomeni molto diversi come "terroristici" aiuta ad abbassare i toni dello scontro, allora un buon giornalista deve avere il coraggio di farlo.

"Non si può dialogare con uno che, per noi, è un terrorista, che chiamiamo in questo modo". Questo è l’effetto che abbiamo ottenuto: "non essere riusciti a stabilire un dialogo con chi era in conflitto con noi". Ne è derivato un impoverimento della nostra comprensione del mondo che ci rende, ogni giorno, più insicuri. Nelle parole di Phil Rees, un’ecologia del linguaggio giornalistico, potrebbe contribuire ad invertire la tendenza.