Per i bambini che soffrono di narcolessia di tipo 1 anche una semplice risata può trasformarsi in un pericolo. Come altre emozioni, il riso in questa malattia può infatti innescare un attacco cataplettico: un'improvvisa perdita del tono muscolare che porta la persona colpita a cadere a terra senza riuscire a muoversi o a parlare, pur rimanendo cosciente. Un gruppo di ricerca delle università di Bologna e di Modena e Reggio-Emilia è ora riuscito dimostrare che una particolare regione cerebrale – chiamata "zona incerta" – si attiva durante le risate spontanee solo in bambini e adolescenti affetti da narcolessia. Una scoperta che potrebbe portare ad individuare nuovi target terapeutici per questa rara ma invalidante condizione patologica.
Lo studio – pubblicato e segnalato in copertina nell'ultimo numero della rivista Neurology – dimostra per la prima volta il coinvolgimento di network cerebrali parzialmente differenti nei bambini e adolescenti che soffrono di narcolessia di tipo 1 rispetto ai loro coetanei che non sono colpiti della malattia, e fornisce nuovi elementi utili per la comprensione dei meccanismi che collegano le forti emozioni all'attivazione di un attacco di cataplessia.
RISO, NARCOLESSIA E CATAPLESSIA
La narcolessia è una malattia rara che colpisce circa una persona su 2000. Si tratta di un serio disturbo neurologico, incurabile e disabilitante, che porta ad improvvisi attacchi di sonno durante il giorno, a cui si affiancano anche casi di paralisi del sonno e forti allucinazioni. La narcolessia di tipo 1, inoltre, comporta anche la cataplessia, una condizione che, a seguito di una forte emozione, ad esempio una risata, produce l’improvvisa perdita del tono muscolare. Ed è proprio sulle reazioni al riso nei pazienti narcolettici che si è concentrata l'attenzione dei ricercatori.
Utilizzando tecniche di neuroimaging avanzato (EEG-fMRI), gli studiosi hanno indagato i circuiti cerebrali che si attivano durante una risata spontanea in bambini e adolescenti sani e in loro coetanei affetti da narcolessia. Un paragone che per la prima volta ha fatto emergere differenze nelle aree del cervello che vengono coinvolte quando a ridere sono bambini colpiti dalla malattia.
LA ZONA INCERTA
L'attenzione dei ricercatori si è concentrata in particolare sul coinvolgimento di una specifica area cerebrale, nota come "zona incerta", che fino ad oggi non era mai stata messa in relazione alla narcolessia nell'uomo. "Il nostro studio – spiega Giuseppe Plazzi, docente dell’Università di Bologna che ha partecipato alla ricerca – permette per la prima volta di riconoscere il coinvolgimento di specifici nodi cerebrali la cui attività influenza l’attivazione del network patologico che innesca l’attacco cataplettico”. Una maggiore attivazione della “zona incerta” potrebbe quindi contribuire a prevenire gli attacchi di cataplessia.
Considerato che la narcolessia è ad oggi una malattia incurabile, la scoperta è sicuramente rilevante. “I nostri risultati – conferma Anna Elisabetta Vaudano, ricercatrice dell’Università di Modena e Reggio-Emilia e prima autrice del lavoro –, in linea con recenti dati ottenuti nell’animale di esperimento, riconoscono per la prima volta nell’uomo il ruolo funzionale della zona incerta nella cataplessia, e contribuiscono a identificare questa regione cerebrale come possibile nuovo target terapeutico”.
Si tratta di risultati, insomma, che potrebbero aprire la strada alla ricerca di nuovi target terapeutici per questa malattia rara, come evidenzia il professor Stefano Meletti direttore della Struttura Complessa di Neurologia dell’AOU di Modena e docente dell’Università di Modena e Reggio-Emilia: “Sono dati che aprono nuove prospettive sia per lo studio della cataplessia e delle sue relazioni con le emozioni, sia per identificare nuovi bersagli farmacologici in questa condizione patologica che presenta importanti ripercussioni sulla qualità della vita dei piccoli pazienti”.
I PROTAGONISTI DELLO STUDIO
La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Neurology, organo dell’American Academy of Neurology. A realizzarlo sono stati studiosi del Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Università di Bologna e dell’IRCCS - Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna (Giuseppe Plazzi e Fabio Pizza), del Dipartimento di Scienze Biomediche, Metaboliche e Neuroscienze e del Dipartimento di Scienze della Vita dell’Università di Modena e Reggio-Emilia (Anna Elisabetta Vaudano, Francesca Talami e Stefano Meletti). Lo studio è stato possibile inoltre grazie al coinvolgimento dei pazienti dell’AIN - Associazione Italiana Narcolettici e Ipersonni.
“Con i colleghi dell’Università di Modena e Reggio-Emilia – sottolinea il professor Giuseppe Plazzi – si è costituita una fruttuosa collaborazione che ha permesso di raggiungere obiettivi ambiziosi ed ha contribuito in modo significativo ad ampliare le conoscenze riguardo alla narcolessia. Un sentito grazie va sicuramente all’associazione dei pazienti AIN, ai bambini volontari e alle loro famiglie che hanno permesso l’attuazione del progetto fino al risultato finale”.