Trentanove anni dopo la Strage alla Stazione di Bologna che il 2 agosto 1980 uccise 85 persone e provocò oltre 200 feriti, una nuova perizia ha permesso di ottenere nuove rivelazioni sul tipo di esplosivo utilizzato e sui resti di una delle vittime, il cui corpo non è mai stato identificato. A lavorare sulle nuove analisi è stato un gruppo guidato da Danilo Coppe, perito nominato dalla Corte di Assise e docente del master in Analisi Chimiche e Chimico-Tossicologiche Forensi dell’Alma Mater. Il perito è stato affiancato dal Tenente Colonnello Adolfo Gregori del RACIS di Roma e da un gruppo di studenti e diplomati del master, insieme al professor Stefano Girotti, che ne è il direttore.
A partire dall'estate dello scorso anno, gli esperti dell’Alma Mater hanno setacciato le macerie dell’esplosione, accumulate in un’ex area militare ai Prati di Caprara di Bologna, alla ricerca di nuovi indizi. I periti hanno analizzato anche un pannello pubblicitario in cartone che era presente nella sala d’attesa della stazione al momento dell’esplosione, e hanno passato in rassegna diversi oggetti appartenuti alle vittime, raccolti dopo la strage e conservati fino ad oggi come ricordo dai loro parenti. Infine, sono stati esumati i resti attribuiti a Maria Fresu, una delle vittime che si trovavano più vicine all'ordigno al momento dell’esplosione.
Grazie all'analisi e al confronto di tutti questi reperti, gli esperti sono riusciti ad ottenere nuovi importanti risultati sulla natura dell’esplosivo utilizzato dagli attentatori: non a base di gelatina da cava usata in campo civile come si era creduto fino ad oggi, ma di Tritolite, una miscela di due sostanze esplosive – TNT e RDX – usata in ambito militare durante la seconda guerra mondiale.
L’ipotesi dell’esplosivo a base di gelatina da cava risaliva alla prima perizia fatta dopo la strage, che aveva rilevato tracce sia di nitroglicerina che di solfato di bario: una sostanza usata come stabilizzante della nitroglicerina proprio negli ordigni a base di gelatina da cava. La nuova perizia ha però rivelato che le tracce di solfato di bario non erano parte dell’esplosivo, ma provenivano dalla vernice dei muri della sala d’attesa della stazione. Altre sostanze rilevate sono state invece riconosciute come stabilizzanti presenti nelle cariche di lancio utilizzate in campo militare, confermando che l’esplosivo utilizzato è una miscela di TNT e RDX nota come in Europa come Tritolite e come Compound B nelle produzioni anglo-americane.
L’analisi del DNA dei resti umani esumati ha inoltre rivelato un’attribuzione errata: i resti non appartengono a Maria Fresu, giovane vittima ventitreenne il cui corpo non è mai stato identificato, ma a due diverse donne vittime dell’esplosione. Un errore che si affianca a molti altri indizi raccolti dagli esperti, da cui emergono i segni di una mancata regia investigativa nelle prime indagini e nelle varie perizie svolte nel corso degli anni.