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Home Innovazione e ricerca Alcuni coronavirus rubano geni dell’ospite per sfuggire al sistema immunitario

Alcuni coronavirus rubano geni dell’ospite per sfuggire al sistema immunitario

È la prima volta che questa capacità viene osservata in un coronavirus: la scoperta deriva dall’analisi di patogeni ritrovati in esemplari di ricci europei che appartengono allo stesso gruppo dei Beta-CoV responsabili sia della COVID-19 che della MERS, ma per i quali non esistono evidenze di una possibile trasmissibilità all’uomo


Alcuni coronavirus hanno dimostrato di essere in grado di incorporare al loro interno geni dell’organismo ospite che hanno infettato in modo da mimetizzarsi e rendere più difficile la loro individuazione da parte del sistema immunitario. La scoperta - pubblicata sulla rivista Viruses - arriva da un gruppo di ricerca italiano che ha coinvolto studiosi dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna (IZSLER) e dell'Università di Bologna.

Questo risultato dimostra per la prima volta l’esistenza tra i coronavirus di un meccanismo evolutivo estremamente raffinato, e ribadisce il valore dello studio delle malattie della fauna selvatica. "Indagini come questa sono fondamentali per la comprensione delle patologie trasmissibili tra animali e uomo, nell’ottica di una corretta gestione degli ecosistemi e dell’equilibrio tra le specie che li popolano" dice Mauro Delogu, ricercatore dell'Università di Bologna, tra gli autori dello studio.

La scoperta è arrivata studiando coronavirus ritrovati in esemplari di ricci europei (Erinaceus europaeus), classificati come EriCoV. Si tratta di virus che appartengono allo stesso gruppo dei Beta-CoV responsabili sia della COVID-19 che della MERS, ma per i quali non esistono evidenze di una possibile trasmissibilità all’uomo.

All'interno di questi coronavirus propri dei ricci, i ricercatori hanno scoperto la presenza di un gene - chiamato CD200 – che appartiene all’organismo ospite e che, insieme al suo recettore, permette di prevenire un'eccessiva risposta infiammatoria. Incorporando questo elemento, il virus è in grado così di rendere più difficile la risposta immunitaria che si attiva a difesa dell’ospite.

È la prima volta che questa capacità viene osservata in un coronavirus, e potrebbe essere in grado di condizionare la durata delle infezioni, allungando i tempi per l’eliminazione del virus e generando così casi di infezioni croniche. Un elemento, questo, che si rivela molto vantaggioso per il virus perché aumenterebbe la sua capacità di moltiplicarsi e diffondersi, grazie ad una specifica strategia evolutiva.

"Questa scoperta apre la strada a nuove ricerche per esplorare la potenziale capacità dei coronavirus di attivare segnali inibitori delle cellule immunitarie", dice ancora Delogu. "In questo modo il coronavirus può infatti mimetizzarsi e rendersi poco visibile al sistema immunitario dell’ospite deputato a riconoscerlo e distruggerlo".

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Viruses con il titolo "Can Coronaviruses Steal Genes from the Host as Evidenced in Western European Hedgehogs by EriCoV Genetic Characterization?" Per l’Università di Bologna hanno partecipato Claudia Cotti e Mauro Delogu, entrambi del Servizio di Fauna Selvatica ed Esotica del Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie.