Logo d'ateneo Unibo Magazine
Home Innovazione e ricerca Ambienti estremi e vita extraterrestre: un approccio etico all’astrobiologia

Ambienti estremi e vita extraterrestre: un approccio etico all’astrobiologia

I "siti analoghi" sono luoghi terrestri che, per le loro caratteristiche estreme, possono essere simili ad ambienti extraterrestri. Le attività di ricerca in questo campo sollevano però una serie di questioni etiche. UniboMagazine ne ha parlato con Barbara Cavalazzi, professoressa al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, tra gli autori di un intervento sul tema pubblicato su Nature Astronomy


L'astrobiologia è una disciplina che studia l'evoluzione delle prime possibili forme di vita nell’universo, sui pianeti e su altri corpi celesti. Per farlo, una delle pratiche più utilizzate è quella dell’indagine in "siti analoghi": luoghi terrestri che, per le loro caratteristiche estreme in termini di temperature, salinità, aridità, geologia, possono essere simili ad ambienti extraterrestri.

La ricerca sul campo in questi siti – che si trovano molto spesso nel Sud del mondo – sta facendo però emergere una serie di questioni etiche rispetto all’impatto in termini ambientali e accademici e rispetto al rapporto con le popolazioni locali. UniboMagazine ne ha parlato con la professoressa Barbara Cavalazzi, che si occupa di geobiologia e astrobiologia al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali e che è tra gli autori di un intervento su questo tema pubblicato su Nature Astronomy.

Professoressa Cavalazzi, l’astrobiologia si occupa di vita extraterrestre ma voi segnalate preoccupazioni etiche che riguardano il nostro mondo. Quali sono?
Molti dei siti analoghi planetari studiati dall’astrobiologia si trovano nel Sud del mondo e questo pone una sfida etica, perché gli studiosi coinvolti arrivano spesso dal Nord del mondo, mentre i ricercatori locali, con minori risorse e possibilità, restano sottorappresentati. A questo si aggiunge poi il tema del rapporto tra questi siti e le popolazioni indigene, che vanno rispettate e coinvolte.

Questi siti analoghi si trovano spesso in zone remote e disabitate: quali sono le preoccupazioni che emergono?
C’è un doppio problema che coinvolge spesso questi siti: da un lato, per le loro caratteristiche estreme, possono apparire come terre di nessuno e senza valore, mentre dall’altro lato possono emergere come luoghi da sfruttare per le loro risorse ambientali. In entrambi i casi si tratta di approcci che tradiscono una visione coloniale: serve invece una prospettiva etica per guardare questi luoghi come ambienti da proteggere, per instaurare partnership fruttuose con i ricercatori locali e per collaborare con le comunità indigene.

Quali sono i rischi dal punto di vista ambientale?
Proprio perché si tratta di luoghi dalle caratteristiche uniche, assicurare la loro protezione è fondamentale, che si tratti delle lagune e delle comunità microbiche nella regione di Puna, in Argentina, o del cuore estremamente arido del deserto di Atacama, in Cile, o ancora della depressione della Dancalia, in Etiopia, con la sua estrema acidità e salinità. È importante limitare il numero di spedizioni sul campo per recuperare campioni da analizzare: per questo, i campioni e i dati raccolti dovrebbero poter essere condivisi all’interno della comunità scientifica, proprio dovrà avvenire come già avviene nel caso dei campioni che saranno riportati a Terra nelle missioni Mars Sample Return.

Quando si parla di comunità scientifica emerge anche il tema della collaborazione con i ricercatori delle università e dei centri di ricerca locali.
Quando si tratta di ricerca sul campo, un approccio etico alla pratica scientifica deve riconoscere l’asimmetria di risorse tra chi arriva in missione dal Nord globale e gli scienziati locali nei paesi del Sud del mondo. Nel caso, ad esempio, delle saline di Makgadikgadi, in Botswana, il più grande bacino evaporitico interno al mondo, con caratteristiche simili alle regioni equatoriali di Marte, ancora troppo spesso gli scienziati locali sono considerati poco più che guide turistiche o accompagnatori. Servono invece vere collaborazioni, in cui i campioni vengono processati e analizzati in loco e tutte le fasi della ricerca vengono discusse alla pari da tutti gli scienziati coinvolti.

Come approcciare invece le popolazioni che abitano questi luoghi?
Purtroppo, il modo con cui vengono portati avanti gli studi sul campo nei siti analoghi mostra spesso dei paralleli con il periodo coloniale, in cui le potenze conquistatrici si sono arricchite dei tesori presenti nelle terre colonizzate impoverendo tanto l’ambiente che le popolazioni locali. È successo ad esempio nel deserto di Atacama, in Cile, dove la comunità indigena dei Colla ha condannato l’impatto delle attività umane per le loro conseguenze negative sull’ecosistema e sulle risorse idriche. I ricercatori devono instaurare rapporti con le comunità locali e rispettare la loro cultura e le loro credenze: devono essere consapevoli dell’impatto delle loro azioni e organizzare le loro attività avendo sempre come priorità il benessere delle persone, il rispetto delle tradizioni locali e dell’ambiente.

Quali sono i prossimi passi per arrivare a questi obiettivi?
Il nostro intervento su Nature Astronomy vuole essere un appello alla comunità dell’astrobiologia, ma non solo, anche per tutti i ricercatori che lavorano sul campo, affinché le attività di ricerca sul campo vengano svolte in modo più attento, più consapevole. Auspichiamo che si diffonda sempre di più uno spirito di collaborazione, per un approccio sempre più rispettoso e inclusivo. I nostri studi guardano alle future missioni spaziali, e forse questo approccio etico alla ricerca dovrebbe essere d’esempio per la gestione delle future esplorazioni di ambienti extraterrestri.