La proposta, lanciata durante un convegno a Bologna, viene dai rettori di alcuni degli atenei italiani che si distinguono per produttività, competitività e solidità finanziaria, e per la costituzione formale si dovrà attendere il via libera degli organi accademici competenti di ciascun ateneo.
Si tratta delle università: Politecnica delle Marche, Bologna, Calabria, Ferrara, Milano-Bicocca, Politecnico di Milano, Modena e Reggio Emilia, Padova, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, Trento, Verona.
Nei giorni scorsi avevano rivolto un appello ai candidati premier per chiedere più risorse per l’università italiana e distribuite secondo criteri meritocratici.
Questi atenei rispondono a rigorosi requisiti oggettivi di qualità. In particolare vantano una produttività superiore alla media, e almeno due dei seguenti punti di forza: una sostenibilità finanziaria (come da Libro verde della finanza pubblica del ministero del Tesoro) che vede i costi fissi del personale incidere per meno del 90 per cento sul finanziamento statale (FFO); una dimensione adeguata ad operare in ambito internazionale fissata ad almeno 15mila allievi tra lauree triennali, magistrali e dottorati; la recensione in almeno una delle più autorevoli classifiche accademiche internazionali (es. quella del quotidiano The Times di Londra o dell’Università Jiao Tong di Shanghai).
Sono complessivamente 19 gli atenei statali che soddisfano questi parametri. Ai 12 promotori di Aquis si aggiungono infatti le università di Chieti, Lecce, Milano, Perugia, Roma tre, Salerno e Torino, che saranno invitate ad unirsi alla nuova associazione. Insieme costituiscono circa un terzo di tutte le università pubbliche italiane, e fanno il 40 per cento dell’intera popolazione studentesca universitaria.
"Lavoreremo al fianco della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane), che rispettiamo e continueremo a sostenere – spiega il rettore Pier Ugo Calzolari - per migliorare l’intero sistema universitario italiano. Ci preme però anche appoggiare in modo più deciso gli atenei italiani più competitivi sulla scena internazionale. In un paese come il nostro in cui l’80 per cento della ricerca ha luogo nelle università, questo significa sostanzialmente favorire l’Italia nella competizione globale per la conoscenza. La proposta che faremo al nuovo governo è: più risorse in cambio di gestioni rigorose dei bilanci".
E le ragioni per investire di più nella ricerca italiana non sono solo negative. L’Italia non è infatti solo uno degli stati europei con il più basso tasso d’investimento in ricerca (1 per cento del Pil a fronte dell’1,7 - 2,5 degli altri grandi paesi del continente) e con la minor concentrazione di ricercatori (3,5 ogni 1000 lavoratori rispetto ai 6 dell’Europa a 25) ma è anche uno degli stati con i ricercatori più produttivi e meno costosi. Se guardiamo infatti alle pubblicazioni scientifiche, cioè alle nuove scoperte, l’Italia è tra i principali produttori europei (oltre 4,5 per cento dell’intera produzione mondiale) e il suo trend è in crescita. I suoi scienziati sono tra quelli che creano mediamente più conoscenza e lo fanno più a buon mercato, se si rapportano i risultati agli investimenti.
Un ruolo centrale nel rilancio degli investimenti sulla ricerca spetta ai privati. Il vicepresidente di Confindustria Gianfelice Rocca, parlando al convegno, ha detto che "occorre introdurre un sistema premiale per le università più produttive" e che "Confindustria si schiera come partner delle università migliori".
Se si guarda poi al sistema di finanziamento degli atenei statali, le cose funzionano così. Ogni anno ciascun ateneo ottiene una quota di soldi dallo stato (FFO) che poi decide, in virtù dell’autonomia finanziaria, di spendere come meglio crede. A partire dal 1996 ci si è dati un modello ideale di ripartizione dell’ammontare complessivo del finanziamento statale, basato su criteri di qualità ed efficienza concordati tra stato e università.
Questo modello non è mai stato applicato fino in fondo, cosicché ci sono atenei virtuosi sistematicamente sotto-finanziati, e altri meno virtuosi sistematicamente sovra-finanziati. Il risultato è che in 12 anni il credito dei primi e il debito dei secondi hanno continuato ad ingrossarsi e non ci sono segni d’inversione di rotta. Di più, alcuni dei virtuosi, costantemente penalizzati nella ripartizione dei fondi rispetto alle loro esigenze e prestazioni, cominciano a perdere colpi. Se si continua così si rischia di compromettere proprio il meglio del sistema universitario italiano.